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Cera Rosco Tiziana (2.14)

 TIZIANA CERA ROSCO, La Stessa Persona
Poesia n. 290, febbraio 2014

Lo sguardo di Tiziana Cera Rosco sembra venire da un eremitaggio, somiglia a quello dei separati dal mondo, a quello di coloro che vivono in un’altitudine estrema, irrespirabile. Ma la percentuale di mondo che lo sguardo coglie e accoglie, la sua prossimità interiore, fa la differenza tra eremiti (mondo assunto e ritessuto in silenzio) e poeti (mondo restituito in parola). Quella di Cera Rosco è una solitudine abitata, popolata da cose e persone osservate da distanze raggiungibili, da una solitudine che somiglia al lavoro incessante e pressoché invisibile dell’alba. Con la stessa fatica naturale del sole che comincia a versare la sua luce, Cera Rosco spreme sulla pagina il succo della sua esistenza e della propria esperienza, non trascurando l’occupazione umana di fornire alimento, cibo ai vivi: agli stretti, ai vicini, così vicini da essere figli, rifatti figli da ciascun risveglio. Ri-conosciuti e riaffermati alla luce di ogni giorno. Con il corpo fermo nel vuoto apparente delle albe, Cera Rosco discorre con i due Friedrich, il poeta (Hölderlin) e il filosofo (Nietzsche), sotto l’esergo morale di un verso di Celan. La disposizione di Cera Rosco appare un impegno di continuità morale. Nel vacuo delle albe, il mondo viene preso alla sua essenza, ancora disabitato e sospeso, fatto vivo solo dalle presenze che durante il sonno notturno hanno domandato la propria percentuale di bene, dal carico umano degli affetti, dei presi dentro – ma in assenza di amore e davanti al dubbio sulla morte morale del mondo. La silloge si chiude con un congedo, con la richiesta di un fiero abbandono: “fa’ come me // abbandonami anche tu”, poiché ormai “sappiamo che non è mai la stessa persona se ritorna”.

Lo slancio di Hölderlin a “essere uno con tutto ciò che vive” fallisce, è già fallito, nelle secche della frammentaria postmodernità – e Cera Rosco prende atto con coraggio della disfatta presente, ma solo dopo essersi presa il tempo di trascrivere a mano la discesa del potente, oltreumano Zarathustra. Questo significa attraversare il mondo tenendo a mente una tra le molte invettive nietzschiane “Oh, ipocriti sentimentali, oh, lascivi! A voi manca l’innocenza del desiderio: e perciò calunniate il desiderare!”, significa usare il corpo, la materia tangibile dei sentimenti, per accogliere quel che accade, avvolgere le cose con la propria pelle e lasciarsene scuoiare come conigli.

Attribuiamo la facoltà incipiente del sole nietzschiano allo sguardo emanato dal corpo che produce parola proprio al momento in cui la notte schiara, lì, nel passaggio chimico e ordinario dalla notte al giorno. Contrapponiamo alla felina e passiva luna il tentativo sincero e solare – di un primo inarrestabile baluginare di sole – di fare luce dove stava il buio, “perché la luce va vista arrivare in assenza di luce” – e al bordo del silenzio, poi che veniamo dal silenzio della notte come da un luogo popolato di larve e comprendiamo l’alba come assunzione umana della parola. All’alba si comincia a parlare. Si comincia da soli e così pari al sole. Viene alla mente una frase riportata da Sigmund Freud nella sua Introduzione allo studio della psicoanalisi (e che a mia volta trascrissi come esergo alla mia preistoria di parlante): “Quando qualcuno parla, fa più chiaro”. Questa fiducia implicita appartiene a chiunque si addestri all’uso dello strumento esclusivamente, tipicamente umano della parola, ma è una fiducia che conviene a tutto l’Occidente, se il verbo presso di noi è addirittura divino: costruzione del mondo, al nominarlo. Se Uno nomina le cose, le cose appaiono, esistono. Le cose dette sono definitive e definitivamente vere. Ma i poeti si scontrano, uno a uno, con un simile dogma occidentale, poiché essi, uno a uno, si accorgono che le parole non sono le cose. E allora è necessario lasciare che il corpo partecipi all’azione del dire, occorre fare del corpo piedistallo, serbatoio, miniera e strumento della parola che esso stesso pronuncia. La parola sia il gesto della mietitura.

La corporeità della poesia femminile è un tema abusato dalle origini. Ma non si tratta solo dell’argomento della poesia, si tratta della quota di muscoli e fibra carnale che poetesse come Tiziana Cera Rosco, come Amelia Rosselli o Marina Cvetaeva, usano per parlare. La connessione tra parola e carne è tanto fitta che, per alcune, parlare è necessario a vivere in senso proprio: biologicamente. Ma Cera Rosco ha una vita parallela: le installazioni, i video, le fotografie delle quali è autrice e nelle quali espone il proprio corpo e un più ampio corpo familiare, sono i luoghi nei quali lascia rifluire e riafferma la realtà del corpo corporale che la poesia ha adoperato per parlare, i luoghi dove nega doppiamente l’astrazione del corpo poetico e ostenta un corpo vero, solo un poco secretato nei bianconeri. Dice: ecco. Io parlo e il mio corpo dà voce alle mie parole. Ma io esisto e prescindo dalle mie parole – e questa è la mia scienza di salvezza.

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