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La formazione della scrittrice (vibrisse.wordpress.com)

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Potrei dire che credo al destino, poiché il racconto che mi dispongo a fare non smentisce alcuna illusione, anzi, mi giustifica a essere allegramente sciocca, a coltivare il mito dell’idiota dostoevskiano e della sua bellezza, posta come un traguardo alla fine del mondo.

È cominciata così: la mia mamma adottiva era una professoressa di Lettere. Molto acuta, molto dedita, molto severa. Come spesso accade alle professoresse, aveva il vizio di svolgere ininterrottamente la propria attività. Anche in casa, specialmente nei dopocena. Non avevamo la televisione e bisognava pur passare il tempo. Ma, soprattutto, era lei stessa una scrittrice mancata. Le mancava il tempo, ma non la coerenza: palesava a ritmo costante cartelline ripiene di romanzi interrotti, nei quali la sua esperienza di insegnante era sempre sul bilico di venire travasata in racconto euforico. Prassi, lavoro, impegno. Ma covava, in un lato segreto della dispensa, quegli slanci dell’anima singolare verso l’anima tutta, declinati in versi nemmeno tanto ingenui, ma tenebrosi alquanto: meridionali, di un Sud normanno: una mischia pirandelliana di amori infelici e di abbandono e di morte irrisa. Un disperato e tragico sarcasmo. Che lavorava dentro, continuamente.

Lo scrittore reale, effettivo, il geniale autodidatta, era papà. Piccolo catalogo memorabile: la porta a vetri dello studio, dal quale proveniva il ticchettio quasi mai zitto della macchina da scrivere, i dattiloscritti rilegati di carta fina, bucherellata dalla foga delle battute, la grafia oblunga delle correzioni a penna, le rare pause infestate dall’odore delle sigarette che presto lo avrebbero ucciso, i libri a costa bianca sugli scaffali. Editori Riuniti: un mondo che aveva ancora a che fare con il mondo, la parola tridimensionale di chi si ostinava a dire il vero e, nonostante ciò, sperava. Memoria e slancio. Sconfitta e slancio. Desiderio che il mondo fosse un posto bello e, soprattutto, libero.

Ma il lavoro sporco e quotidiano con la figlia, come tocca alle madri, lo lavorò mia madre. Così, appena mi ebbe insegnato a scrivere (le lettere dell’alfabeto, intendo, poiché mi fece in casa un’assai approfondita primina, completa di corso d’inglese Fratelli Fabbri Editori e mi spedì in seconda a 5 anni e mezzo), appena mi vide in grado di mettere la penna sul foglio lasciandovi dei segni intellegibili, pretese che tenessi un diario quotidiano. Alla sera, ogni giorno. Un esercizio serio e severo, una soddisfazione da dare, un riconoscimento da ricevere, un voto. Nel doppio senso di esercizio di devozione e di attesa dell’altrui giudizio. Nell’unico senso dell’Altrui Supremo. Credo che la mia attività quotidiana di scrittrice sia nata lì, su quei fogli di agende scolastiche di anni ormai trascorsi, poiché da allora non ho più smesso. Giorno per giorno: parole che riportino su pagina il reale, allora come oggi. Trascrivere il mondo. Anche l’associazione fra realtà e parola dovette nascere in quei dopocena: così dolci, così faticosi.

La scelta della poesia venne più avanti, grazie sempre a un’insegnante – ma meno mia parente – del quinto ginnasio. Nessun commento, nessuna spiegazione, l’ho raccontato tante volte: una lettura vera (ripeto: vera) del Notturno di Alcmane, che schiuse il mondo nel quale avrei voluto abitare per sempre, mi lasciò intravvedere il sentimento del mondo che avrei voluto contribuire a edificare, che avrei voluto e voglio contribuire a fondare anch’io, a parole mie, per abitarlo. Confluire in quel destino parallelo e umano. La professoressa si chiamava (si chiama) Paola Moretti, è a sua volta un’autrice, di teatro. Scrive spesso della morte, sa leggere, è una persona pratica e pratica di misteri. Non la vedo da molto, ma non dimentico il mio debito.

Dunque al ginnasio incominciò l’allenamento vero. Appassionata di filosofia, scrivevo riflessioni su l’uomo: quello maiuscolo, collettivo, andando a capo, com’è costume degli adolescenti. Arrivai all’Università avendo nella mia tasca interiore Giannis Ritsos – incontrato per caso su una bancarella e immediatamente adottato come padre verbale – e Patti Smith: un demoniaco crocevia di urbe e alberi di fico sul mare, d’amore e dissoluzione, politica e ribellione. E tanta energia, tanto dolore, tanta rabbia da convertire.

Durante l’occupazione del Novanta, frequentai un seminario autogestito, condotto con generosità da Biancamaria Frabotta, la quale, sebbene fosse in congedo, si offrì di venire in aula un paio di volte a settimana, per onorare il suo amore verso la poesia e i suoi introversi, sovreccitati adepti. Leggevamo i contemporanei, posavamo con stupore comune i primi passi sulla terra contigua dove abitano i poeti vivi. Che imprevisto: essi dunque respirano. Cominciai a frequentare le letture, in modo ancora del tutto caotico e con una mai del tutto vinta timidezza. Per anni ho pensato angeli, creature dell’aria, queste persone di carne e ossa che sapevano trasportarmi con le loro parole nel mondo più reale del reale dove volevo costruire la mia casa. Naturalmente, la mia scrittura venne influenzata dall’impatto frontale con l’inattesa massa della Letteratura Moderna e Contemporanea: la selvaggia energia degli inizi venne provvisoriamente ingabbiata da una pericolosa consapevolezza della forma. Soprattutto Sereni, le sue toppe d’inesistenza, i suoi morti vivissimi, imitavano tanto la mia vita. Poi, avvenne l’incontro con l’immenso Caproni e il suo Il seme del piangere, che considero ancora il capolavoro della poesia italiana del Novecento. L’inimitabile leggerezza del suo dolore, il fuoco e il pianto fatti canzonetta, filastrocca, rima chiara. Quella mamma più bella del mondo, fidanzata perduta, quell’icona umanissima. Sotto la pressa di questi esempi giganteschi, cercavo malamente di tenere a freno anch’io, in nome di un equivocato buon gusto della misura, versi che si allungavano e sovrabbondavano, eccedevano in ogni direzione. E scrivevo e scrivevo, sulle ginocchia, al capezzale di una nonna allettata da anni, che amavo come una madre naturale, alla quale portavo la riconoscenza che si deve all’amore umano. Oppure scrivevo su una tavolaccia grafitata che poggiava su due pile di cassette della frutta: mia mamma, nel frattempo, era andata via di casa, portando con sé i mobili e lasciando alle mie cure la propria madre. Le notti erano continuamente interrotte dalle sue crisi di soffocamento, ma non importava quanto si dormisse, importava scrivere. Talvolta organizzavo letture danzanti nel mio salotto semivuoto (oh, se c’era spazio!) e la nonna amatissima, per i miei ospiti, era semplicemente La Nonna, un’entità liminare, una veglia costante che emetteva suoni misteriosi dietro una porta chiusa.

Quelli furono gli anni dell’apprendistato. Leggevo furiosamente, soprattutto gli autori che Biancamaria mi consigliava, o che prendevo dalla sua biblioteca: Katherine Mansfield, Virginia Woolf, Boris Pasternak, Osip Mandel’stam, Valerio Magrelli, Antonella Anedda, Milo De Angelis. Questi furono i primi maestri della mia scuola interiore. Le Elegie duinesi di Rainer Maria Rilke arrivarono poco più tardi, durante un esame di Letteratura Comparata. Sono rimaste sul mio tavolo da allora.

Mi dedicai completamente alla poesia, per anni: mi esercitavo giorno e notte (l’ho detto) scrivevo, variavo e stracciavo. Una collega dell’Università, a mia insaputa, inviò alcuni miei inediti al premio Montale. Quando mi telefonò Maria Luisa Spaziani risposi sì, vabbè e, fra le risa, le intimai di smetterla. Un momento topico. Andai alla premiazione con le stampelle: ero stata investita (da un’Alfa blu con la striscia rossa del Corpo dei Carabinieri) e mia nonna, in mia assenza, era morta. L’universo si era modificato. Radicalmente. Conservo con discreta vergogna alcune foto, dove sfoggio una lunga gonna zingaresca, che copre un devastante fissatore esterno e una maglietta sportiva nera a mezza manica. Che figura del tutto fuori luogo. Dopo questa scomposta sovraesposizione anche ossea, tornai al chiuso. Ma. Cinque anni più tardi cominciai a ricevere la rivista “Poesia”. Non mi spiegavo il motivo, nessuno che io conoscessi mi aveva regalato l’abbonamento, dunque, dopo qualche mese, chiamai la redazione per autodenunciarmi di questo furto involontario. Mi rispose un simpatico ragazzo, Fabio Simonelli. L’anomalia del fenomeno lo coinvolse e improvvisammo una bella conversazione, durante la quale Simonelli mi chiese: scrivi? risposi: un po’. Mi disse: mandami qualcosa. Ubbidii. Si era in maggio. A dicembre ricevetti una telefonata. Poche parole: sono Crocetti, sto per venire a Roma, vorrei incontrarla. Stavolta, memore dell’errore, prestai fede. Mi presentai, nella hall dell’albergo dove mi aveva dato appuntamento, con una valigetta rossa, contenente numero 16 dattiloscritti inediti. Una cosa fantozziana. Mi guardò, sorrise, soprattutto con quei suoi occhi ironici tutti azzurri, mi disse mi dia quello che le sembra più bello. Va da sé, gli diedi l’ultimo, quello ancora caldo dell’acciaio della macchina da scrivere, Abitazione del mondo. Crocetti cominciò a leggere dall’indice: uno spettacolo disastroso, poiché la furia della mia continua composizione e ricomposizione non contemplava numerazione alcuna delle pagine, bensì una sequenza di titoli uniti e disgiunti e ri-uniti da un indecifrabile accavallarsi di parabole e frecce. In quel momento eravamo seduti al tavolo di un bar lì vicino. Io non compresi immediatamente l’entità del misfatto, ma il mio lettore dovette rassegnarsi sotto i miei occhi alla rovina di un metodo decennale, mi confidò più tardi. Ciò nonostante, mantenendosi misteriosamente bendisposto, aprì a caso all’interno del fascicolo e lesse, rilesse, gli vennero le lacrime, disse solo lo leggerò tutto stanotte, ma io la pubblico. Pochi mesi dopo vennero pubblicati alcuni estratti su “Poesia”, con una foto che il mio compagno di allora mi aveva scattato durante un magnifico viaggio nel tempo a Palermo. Mi sentivo metafisica, baciata dalla buona sorte. Sparii. Mi faccio spesso cose di questo genere. Misi al mondo un bambino, però, per confermarmi altrimenti. E, dopo oltre due anni dal nostro incontro, telefonai a Crocetti, il quale si mostrò, opportunamente, alquanto scontento di me. Gli dissi scusi, ma nel frattempo ho fatto un figlio. Rispose qualcosa come ah, vabbè, allora… Gli dissi: beh, visto che abbiamo aspettato tanto, mi piacerebbe esordire con il libro che scriverò per mio figlio. Non lo avevo nemmeno iniziato, ma Crocetti mi disse va bene. Mio figlio Arturo è nato all’inizio del 2001. Il libro che gli ho scritto e dedicato è uscito alla fine del 2003. S’intitola La scimmia randagia, perché vorrei che lui imitasse, sì, qualcosa di me, ma non la mia staticità, vorrei che se ne andasse felice per il mondo, che imparasse ad abbandonare un po’, per poi tornare. Io non sono mai stata brava ad andarmene.

Infatti, eccomi qui, a questa scrivania, ereditata da mio padre e reinserita nel mio appartamento dopo la morte di mia madre. E poi e poi. Al primo libro ne seguì un secondo. Ho dedicato uno dei volumi più ponderosi a mia figlia Anna, nata all’inizio del 2008. Mi ispira solo la vita, non scrivo mai se sono triste o arrabbiata. Talvolta scrivo quando ho tanto dolore e la scrittura naturalmente aumenta la sofferenza. Ma la trattiene e la fa comune. E poi e poi.

Nessun editore riuscirà mai a pubblicare tutto quel che scrivo, ma non ha importanza, io continuo a ubbidire. Il mio diario pian piano si è dilatato, aspira a essere un diario collettivo, un coro, una raccolta di voci che chiedono voce. L’io coatto dei diari infantili è stato abbandonato nell’adolescenza, quando mi interrogavo senza profitto sui destini umani. Con il tempo ho smesso il vezzo sterile di intervistare il destino, lo accolgo e basta, descrivo e basta, descrivo anche me stessa come esemplare umano all’interno dell’umano accadimento. Tutto qui. Mi uso al fine di raccontare il mondo, che è un altro mondo, dove siamo tutti un po’ più vicini. Frequento poco il così detto mondo letterario, rifuggo le fiere del libro, ma voglio tanto bene ad alcuni poeti, li vedo, mangiamo insieme, parliamo dei fatti nostri e mai di poesia. Quel che conta è lo sguardo, quello sguardo comune, che da millenni, ormai, non dice io.

Roma, 15 gennaio 2014

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