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Renda Marilena (4.14)

 MARILENA RENDA, La sottrazione
Poesia n. 292, aprile 2014

La sottrazione, sì, è un’operazione matematica elementare – ma è anche il nostro levarci dal mondo, il nostro essere “quella che non sarà mai qui”. Alzarsi e andarsene, possibilmente non visti, forti in sé, se il proposito inziale è liberarsi dal bisogno del bene e anche dalla memoria del bene che ci è stato voluto, una volta e non più. Si tratterà di verificare in seguito cosa rimane, dopo la detersione malinconica che, nella sua meticolosa furia sottrattiva, rischia di eliminare anche “le cose vive”. Tutti sé, per esempio, se sottrazione è anche mescolarsi ad altri fenomeni e creature del mondo, per diventare terze cose, che prima non erano date. Ma questo non è un male, questo sparire come cosa nota, rinnova e aumenta il mondo.

La scrittura di Marilena Renda, oltre a muoversi tra questi stati d’essere e non essere, ha spesso un andamento onirico e fiabesco, se non sciorina aneddoti che hanno fermamente a che vedere col mondo e col mestiere, d’insegnare e di vivere, fino allo schizzo di alcuni dialoghetti di ambiente scolastico. I due toni s’intersecano a volte in uno stesso testo, lasciano che si manifesti, nel reale, una sovrarealtà fantasmata, metaforica – quasi che il mondo fosse stato visto con gli occhi di un io semisiderale.

Attribuiamo l’onirismo di Renda sia alla prossimità dell’autrice-insegnante con il mondo dei piccoli “altri”, sia alla prossimità dell’autrice-autrice alla propria stessa infantilità, perché la sua pare una posizione intima: non si tratta di storia, biografia e memoria, ma di equilibri assimilati fino a vedere il mondo con gli occhi di “una bambina scomparsa”, che crede, insieme al suo alunno, e proprio mentre lo contraddice, che lo stesso insetto li torni a salutare ancora e ancora, poiché ricorda certa cruda solitudine infantile e certa propensione al legamento misterioso tra sé e natura, riconosce quei piccoli corpi così esposti nella loro solenne imperfezione, riconosce le bestie che popolano le fiabe e il mondo dell’infanzia, se ne lascia permeare e, al tempo stesso, mantiene la vigilanza, fa scudo con il proprio corpo adulto.

La sottrazione muove dunque il suo corpo verbale sempre al limite di una scomparsa, ha quasi i bordi delle frasi smangiati dal silenzio, dal rischio di un crollo. Non per ciò è poesia pericolante: la sua semiassenza è anzi solidissima, lascia la traccia di una ubiquità e di un nascondimento, quasi che il corpo fosse celato in una bolla opaca, a protezione.

Poiché abbiamo introdotto il suo bel volume Ruggine (Le voci della luna, 2012) sappiamo che, quando Renda scrive degli slum di Calcutta nominati da Lapierre o dei paesi dopo la catastrofe di Olsen, sta dicendo di quella sua infanzia nelle baraccopoli del Belice, della terra-limite dove ha vissuto l’inizio della sua vita e, se l’infanzia è il nostro tempo sconfinato dell’immortalità, viverla in un non-luogo, all’orlo sempre incerto tra edificio e natura, lascia il segno di una mitica, originaria originalità. La sottrazione è, dunque, anche la crepa continua e ramificata della devastazione naturale, certificata da mano umana nel cretto di Burri sulla città distrutta di Gibellina – che ha cementificato le macerie, il disastro, in quei dieci ettari di catastrofe cristallizzata nel vuoto come i calchi dei corpi di Pompei: taluni in sonno, altri in preghiera, altri fossilizzati nell’ultimo degli urli umani.

Immaginiamo la piccola Marilena che si aggira nel vasto cretto di parole della Renda oggi adulta. Insieme a lei siamo costretti a rappresentarci sempre un prima e un dopo. Non necessariamente la frattura è un disastro. Ma è frattura. Alla quale assentire, se la silloge chiude con il gesto di chinare il capo, gesto che per le bestie è, però, solo gesto: privo di senso, di umiliazione o gloria. Privo. Gesto nudo. Un sottrarsi del mondo da noi e di noi dal precipizio che si apre nel mondo, che ha bisogno di applicazione, di un pianeggiante, sereno, vedente senso di realtà e delle piccole cose, come in Elizabeth Bishop e nella sua malinconica, ironica arte di perdere, incessante lezione sul lasciar andare, sul sopravvivere a ogni disastro: siamo tutti un po’ vivi e un po’ morti, come il gatto di Schrödinger – ma siamo tutti punti di partenza per la diramazione di ogni possibile.

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