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Calogero Lorenzo, Avaro nel tuo pensiero (alfapiù libri, 23.9.14)

SO DI NON ESSERE MAI STATO

http://www.alfabeta2.it/2014/09/23/so-non-essere-mai-ritorno-lorenzo-calogero/

Ecco a noi Calogero, medico calabrese, classe 1910, che visse la poesia come assoluto, componendo oltre 800 quaderni manoscritti, molti dei quali ancora inediti: morto a 51 anni nella propria casa, la sua opera venne scoperta dopo la sua scomparsa, ma l’editore Lerici fallì prima di poterla pubblicare tutta. Dalla mole sommersa, adesso finalmente disponibile, affiora Avaro nel tuo pensiero, appena edito da Donzelli, ma scritto nella seconda metà dell’ottobre 1955 e forse preparato, negli anni ottanta, per un’edizione mai realizzata a cura di Amelia Rosselli.

Aprendo il libro veniamo avvolti dalle nebbie di una perdita: dalle pagine esala malinconia sovranaturale. Qualcosa che era non è più. Il mondo vero è decaduto e decaduto è il tempo. La terra è fantasmatica, fatta di ombre lacustri e baci perduti, gioie che non tornano, cose concluse. È terra fatta dal suono delle parole, che la descrivono con assonanze e allitterazioni soprattutto in r e in v: trilli e fischi di uccelli boschivi. Muoviamo in un silenzio post apocalittico, mosso da “euritmie”. L’autore stesso è tutto sguardo e memoria, piaga di nostalgia per qualcosa che inverava il mondo, se prima “vergine e distesa tu potevi tutto ricoprire” e ora “tutto riverso sono dentro un mio pensiero”. Gli aggettivi usati per la res amissa sono “carnoso, tumido, denso”, le mani erano “dure e piene” e c’era il “gruppo magico” dei corpi. Ora il corpo, solo, si corrompe “in un gruppo fragile” e le cose si staccano stente da un fondale di cartone: acquosi schizzi di colore in forma d’albero, di pervinca o di rosa. Raramente umana.

L’assenza amara di quel “cieco incanto” arriva a privare la terra della terza dimensione, avvolge specie e oggetti in una bruma inconsolata. Anche l’uso dei tempi verbali è confusivo: da presente a imperfetto, da presente a passato remoto. La nostalgia del paradiso avvelena il tempo, il rimpianto annichilisce a ritroso: “So di non essere mai stato”. La figura più viva di questa parte di libro è un insetto, che masticando rivive una legge di gioia fiabesca. Perché l’amata, che si vorrebbe avere la forza di allontanare, contro la quale si ingaggia una pur debole lotta interna, è pur sempre presente: abita i nostri giorni con lo stesso corpo, ora algido, semimorto. Insopportabile. Insuperabile. Quello di Calogero sembra finora un canto rosselliano. Privo però di rabbia, dimesso. Il canto di chi non chiama più, semplicemente osserva la rovina.

Ma, tenendo l’occhio così fisso alla fine, scrivendo e riscrivendo il dolore, si depotenzia il dolore e così, da metà libro il tono cambia, la lingua diventa ardimentosa e viva. La composizione delle pagine precedenti ha squarciato il deposito di “lattescente” chiarore innaturale, tanto da dire, a un tratto “Ora vedi chi sono, chi amo”, e nominare i “dolci aliti dei vivi”. Qui cominciano impeti verbali, Calogero sembra emerso dalla sua sepoltura di aria e riprende contatto con se stesso, consistente nel mondo consistente: “intima una vita liquida / si riaccende”. Mentre prima anche il solco sulla fronte dell’amata oscillava tra aridità e fertilità, adesso egli chiede: che le “pieghe rosse” di lei spandano un senso originario e lieviti la vita, mescolata al canto. Ora che il corpo nudo si fa toccare, rinnova l’aria che il poeta era diventato e chi scrive si sente simile al simile, compreso, nel suo stare individuale e nello stare al mondo della specie. Perché chi ama ha sopportato tutto il rimpianto e chi è tornato l’ha trovato al suo posto. Fermamente. Sentinella e guardiano di un tempio che pareva abbandonato: “Non ho più altro soccorso / che questa tua strenua /volontà di vivere che si riordina”.

L’intelligenza di Caterina Verbaro (curatrice del testo insieme a Mario Sechi e studiosa di Lorenzo Calogero) suggerisce, in prefazione, una lettura non banale di questo che abbiamo fin qui descritto come il minuzioso diario di una perdita amorosa. L’apparente cronaca d’amore è in realtà il principio di un processo di individuazione dell’io scrivente rispetto a quel “tu” onnivoro al quale sempre si volge. Calogero desidera nascere, opporsi al proprio stesso desiderio fusionale: separarsi, attraverso la poesia, dalla sua stessa poesia, ovvero dal proprio sentire e dire l’indistinto. La parola è la porta d’accesso al mondo Uno e fagocitante, ma è anche la voce di chi nomina e, per ciò, si distingue dal magico silenzio originario. Avaro nel tuo pensiero è dunque cordone che avvince l’autore all’eden dell’indifferenziato infantile ed è insieme recisione. Egli desidera sentire il proprio corpo tiepido di sognatore e non più solo dirne il grande sogno. Che questo “tu” sia un’amata, che sia la poesia col suo dettato pervasivo, aver posato lo sguardo sul vivo dopo una lunga mancanza, cambia lo sguardo che si deposita sul mondo intero: poco dopo l’apparizione centrale, Calogero torna a scorrere il nastro della memoria. Ma il tono è cambiato. Il ritorno ha aperto gli occhi. Così, fatto il suo pur incerto ingresso nel canone reale, un poeta arriva alla compassione nei confronti dell’astratta musa, della quale, infine, nota con tenerezza l’umanità – e quella del proprio essere sognante “perché un povero cuore / non poteva dire sì due volte”. Dunque, forse, in quei 12 giorni di ottobre, Calogero comincia a perdonarsi la propria solitudine e, insieme, perdona la solitudine nella quale è stretto ogni essere umano, impara da sé la fratellanza di essere solo fratelli – fratelli nati, non più entità monozigote di un’unica sfera: magica, prenatale.

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