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Griguoli Ludovico (10.14)

LUDOVICO GRIGUOLI, Resina
“Poesia” n. 297, ottobre 2014

La Resina di Ludovico Griguoli è un movimento lento dal buio alla gioia. Lento come il colare della resina, inesorabile come il suo percorso di fluido denso che, mentre cola, ingloba, tiene tutto nella sua luce futura. I fossili, anche quelli del nostro dolore.

In Giappone esiste una pratica detta Kintsugi, che consiste nell’incollare le cose ferite con l’oro, evidenziando i punti di rottura. Si impreziosisce un oggetto sottolineando la sua rete, bellissima e casuale, di effrazione, si esalta la grazia del danno. Così, in Wikipedia: “la pratica nasce dall’idea che dall’imperfezione e da una ferita possa nascere una forma ancora maggiore di perfezione estetica e interiore.” Questo sembra essere il lavoro, appunto interiore e per ciò stesso stilistico, di Griguoli: tenere tutto, trasformare tutto in oggetto prezioso, in bellezza: la sua poesia è l’ambra che tiene il fossile ed è la ceramica nobilitata dall’oro. Qui si ripara per dare riparo e per dare esistenza, si salda l’esistenza all’impasto nobile e multicolore dell’esistenza.

Infatti “la vulnerabilità nelle cose preziose è bella perché la vulnerabilità è un segno di esistenza”. Così scrive Simone Weil, tanto amata da Griguoli da venire citata nella propria biografia e tanto studiata da motivarlo a rielaborare, nel testo qui presentato, parti della di lei Corrispondenza con Joë Bousquet. Il dolore non viene nascosto, viene osservato fino a che accada l’alchimia che lo trasformi in bene, in una nuova predisposizione al bene. Dunque quella di Griguoli è poesia di stratificazioni e sedimenti. Esiste infatti, nelle sue parole, una luce che colma i frammenti, i frantumi, i gusci e i rottami di ghiaia nei cortili. E, a scrivere, è la luce in sé e la persona umana che la trascrive e che, per arrivare a commettere l’atto di registrare il dono della luce, dev’essersi a sua volta trasformata in luce. Diremmo anzi che l’utilizzo della parola al fine di bellezza abbia suggestionato e sorretto la persona scrivente nel trasfigurare ogni dolore in grazia che discende. E questa è la lezione del suo stile.

La silloge si chiude infatti con un fiorire e un nidificare, nascosti e segreti, addirittura dentro le regioni del non essere, che attingono a “l’invisibile arteria della Grazia”. Stiamo appunto parlando di una grazia weiliana, “una clorofilla che permetta di nutrirsi di luce”, del movimento lungo e preciso compiuto da Simone Weil per uscire dalla pesantezza dell’ombra.

Ma in queste parole c’è molto di più di un male-bene individuale. Se la resina cola dal gomito alla caviglia, questo vuol dire che la figura è chiusa. Ma, da questa persona rannicchiata, da questa “ruota / cerchio / croce” di carne, comincia a farsi: spazio, come per una genesi. Si tratta di una vera e propria ri-creazione: tutto il mondo rinasce dal corpo che ha sfilato dalla nuca la colonna dorsale, la sua spina di pesce primigenio e ha ficcato il chiodo dentro la carne, tanto a lungo da arrivare a vederla. Il male rende visibile la carne. Biblicamente, il male svela la nudità della carne e impone che ne abbiamo vergogna. Il male fa una crepa nell’innocenza originaria, edenica. Ma non qui. Questo dolore svela una nudità ancora affaticata e sofferente, ma che ha il coraggio di restare nuda. Nell’ora visionaria del dolore le linfe del corpo si marmorizzano sulla parete, che ne è rifugio e confine, misura desiderata. Si risale dal sangue, si cola come resina, abbandonando la spoglia ninfale del proprio dolore. Così, dal provvisorio sacrificio, da questa provvisoria inesistenza umana, esplodono fiori e stelle. La croce e il chiodo sono adesso linfa e stella marina di una terra promessa. È come se, da ogni umano dolore, ricominciasse l’evoluzione di tutta la specie, come se la specie umana dovesse ogni volta riformarsi dalla fatica genetica del singolo. Genetica in senso scientifico e genetica in senso biblico. Strutturale, congenita, laica fatica di rinascere dopo che siamo nati ma, soprattutto, di rinascere a nome di tutti, contribuire con la nostra rinascita alla riaffermazione dell’intera specie che cammina la terra, sospinta solo dal suo desiderio di evidenza, che la porta a fasciare le sue piaghe per istinto, senza nemmeno avvedersene, per il bene puro di sopravvivere, come fa il corpo quando riforma i suoi ponti di fibre sopra ogni ferita, in una mietitura fatta a vuoto, ovvero per il massimo scopo: il semplice, gioioso, elementare gesto di esistere.

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