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Rosa dell’animale (Zona, 2014)

ROSA DELL’ANIMALE
poesie di Amarji
e Maria Grazia Calandrone
ZONA 2014
pp. 98 – EURO 11
ISBN 978 88 6438 468 9

vendita on-line www.ilovebooks.it e www.amazon.it
e librerie Mondadori


 

 

 

 

 1.7.12 / 12.1.13
 
Rami Youness A.MARJI & M.ARIA Grazia Calandrone
(autotraduzione dall’arabo all’italiano di Amarji, revisione di Maria Grazia Calandrone)

[…] M.
 
l’organo azzurro dell’amore e del pianto
adesso è un vaso di macerie. il cuore
oggi è un fulgido disco di veleni. sta tracimando l’acido e la schiuma dal mio petto.
cosa chiedo all’amore? se non questo
mai bastare, se non questo
tutto volere. l’impianto d’ossa delle tue mani aperte che non diventano ali. questo?
deve bastarmi. l’azzurro irrazionale, l’oscena fame degli innamorati? il blu di tutti i fiumi della terra
sarà meno selvaggio
delle nostre lacrime. ma tu
fammi vedere cos’è un uomo, da quale fondo di disastro raccoglie
l’ombra della sua donna. Non ti voltare,
non dar retta al mio pianto. Solo, guidami. Io forse avrò fiducia
nella tua schiena, nei muscoli flessori delle gambe, nella forma dei glutei
mentre tutto il tuo corpo risale
alla luce e io dietro, seguo con l’innocenza di una bestia ferita
la ferita matura del tuo canto
 
A.
 
Ecco il mio petto, un suolo sfavillante
e fertile: aralo
con le unghie, curve come la falce di un dio barbarico,
seminalo dei tuoi garofani
neri e sonanti – lascia che su di esso le tue labbra
siano aceto sul nitro\
 
c’è un nido nel mio petto,
sempre aperto per l’uovo di un uccello Magio –

c’è nel mio petto un lago
che aumenta il suo calore grazie alla saliva delle stelle,
è l’occhio muscoso amaro della terra
dove i morti sono abbandonati nel loro esilio verde.
nel petto un bosco vago,
in cui le ninfe pizzicano le ribeche del vento
e fanno tremare il nervo blu della notte –,
 
la tua tempia sul mio petto
matura frutti pesanti e incisi, che compiono
la loro rotazione nella mia tempia.
 
M.

sale del pianto e sale
dell’innocenza. sale dal pianto l’innocenza
dei morti, che sono capre dall’occhio selvaggio, fisso
in Dio, sono innocenti come l’animale.
tra noi e i morti sono avvenute parole
che ci hanno cambiati
per sempre: ora
vediamo: questa stalla è una sala di compassione, questa bestia dal corpo
bianco e monumentale emana
misericordia. mater
velata, dura
madre del velario, rossa come la terra damascena e perturbante come la sua rosa, io ti prego
perché attraverso il corpo di un ragazzo sono arrivata al regno
del silenzio: sento solo il rumore degli dei che masticano l’erba,
solo questo lontano ruminare
di pianeti, un battere
di sfere, la vastità dei muscoli orbitali tesi oltremisura per sorridere
 
A.
 
ti stringo a me\ la stella si arrugginisce nel mio petto,
palpitano invece
i corimbi a tromba degli agnocasti –
sotto le scosse del sale
stillato dalla tua ammoniaca verso il mio corpo
 
hai riempito
la mia entità di termiti e timo semiterrestre,
ho riempito la tua
di cavolaie e rosolacci luminosi –
perciò parli a volte con la bocca del vento
e io parlo con quella del fango: perciò
i tuoi papaveri neri nuotano nel fosforo del mio cuore
e il mio sole mette radici nel tuo concime.
 
è lo spaccarsi del surmaschile
nell’unità del surfemminile, non il contrario –,
 
così ti dico
la perdita,nella mia lingua, è fusione
la gioia è spaccamento
 
M.
 
nel giogo dell’impero occidentale l’etimologia del demonio
è separazione. solo quando Mosè divise le acque
fu opera di salvezza. solo l’acqua
può essere divisa senza rimpianto. altrimenti,
dove è separazione, ecco il cupo sgomento
della solitudine. Dio ha gettato Lucifero nelle profondità del creato
perché la scheggia di luce rimasta nel suo cuore dall’origine
non rispondesse al grido di dolore dell’umanità intera. Lucifero
è il corpo bellissimo e sordo, il corpo rovesciato
nell’antinatura,
la sua sostanza spirituale coincide
con una legione di bestie
che paiono rocce e lucernai in disuso, ha il sentore di zolfo di una perfezione
inservibile. nelle zone profonde della sua pelle
c’è una luce perfetta e inservibile. la sua nullità molecolare
è un fenomeno pieno di rimpianto. essere buio così, essere nessuno. mentre il giusto ha una nullità di luce,
tutto il suo corpo è un adattamento, tutto il suo corpo
è adempimento, dice io sono niente come io sono l’opera completa dei vivi.
 
che tu non veda, disse Dio al serpente, perché hai mostrato agli uomini
la vergogna di essere nudi e questo è stato il seme
della diaspora. che tu non senta,
perché hai insegnato agli uomini a parlarsi e questo è stato il segno
della loro improvvisa solitudine. prima, c’erano i Nomi. nella fusione edenica nessuna
opacità
forzava gli esseri a parlarsi: la solitudine è il comandamento
dell’inferno e la poesia è un salto, unanime e disperato, dall’inferno 
alla compresenza
perduta. allora io prego
che ogni parola sia innocente
come il silenzio di Eva, sia giusta come il nome delle cose, io prego
che ogni dialogo equivalga al silenzio del corpo
che si divide per moltiplicare
la bellezza, la gloria e l’obbedienza, che imprima nella carne l’opera piena
di gratitudine del primo Nome.
 
A.
 
il silenzio! Oh, il silenzio! … quel diapason bianco
e unico, quando posa il suo sperma nel mio cuore, quando mi corrode
come un nuovo Giuseppe marmoreo
e ammutolisce per sempre –
il fragore delle ali degli arcangeli, il clamore degli dei
e lo strepito degli scontri violenti fra i pianeti?
 
può la tua anfora contenere un astro contradditorio che si separa
lasciando dietro di sé la sua roccaforte aerea –
per scendere nell’indole di una lenta neutralità?
 
lasciami entrare, con fuoco e acciaio,
le mie porte sono già scomposte
e i miei semi costruiscono nel non-tempo, 
le mie discendenze si arrampicano come edere
sul muro dell’oblio disteso lungo il nulla,
lasciami entrare nell’orfanità dell’acqua:
un feto di amarezza e dolcezza uguali,
nella sua bocca l’aderenza dei giorni
e sulle sue spalle i rottami del cielo […]
 
così ho sognato dall’inizio:
che tu sia l’anfora stabilita dal suo stesso biancore – dove
si calma la ruota delle tre grazie
e gli impulsi astrali del mio cuore si allentano\
 
M.
 
oggi sei la mia resa, la bandiera
bianca davanti alla massa
verdesanta del mare, alla saldezza muscolare
delle onde, agli spruzzi dell’acqua illuminata e dispersa come un crimine
nella catena delle conseguenze. ma tu
mi cadi tra le braccia come cade in mare
il più alto sole
e il tuo nome tocca la mia bocca con tutta
la generosità dell’estate. i corpi dei poeti
sono incalcolabili
fiori di ciliegio, una flotta celeste, un sospiro di muscoli fossili
e conchiglie. ogni loro parola
è un reato, uno strumento alieno come il raggio verde che ci attraversa quando scende il buio
sulla città. ma ora tutto è verde, tutto è buono, tutto è una locanda a cielo aperto. è estremamente estate, appena oltre la china
di agosto. santo
bruciore della pelle, santa oscillazione
di frange d’ombra al vento e ossido di ottone
sulla curva dei fianchi. sale da terra questo quieto coro
di corpi, bellissimi e distesi
nell’oro. il sole estrae oro dalle nostre viscere. dalla pianta chiara
dei tuoi piedi sale
una preghiera, questa mia
religione

estratti critici

Andrea Breda Minello in Avanti on-line 16.1.15 – Trasformare in canto il sangue della specie

“La rosa dell’animale” rappresenta – oggi, tanto più dopo i fatti di Charlie Hebdo – un punto d’incontro, un luogo comune, dove due voci, appartenenti a culture e sensibilità diverse, si riconoscono e si ascoltano a vicenda. Questa è la funzione precipua della poesia: attraverso la parola dis-velare un mondo, renderlo noto, testimoniarlo. E come farlo se non tramite l’oggetto amoroso? Ecco qui sta il crinale, lo snodo cruciale: la libertà di dire, sussurrare: amore e renderlo respiro. Comprendere il soffio della cosa vocata, detta ed azzerare le differenze. Occidente e mondo arabo si sfiorano e compenetrano.

Scritto a quattro mani da Amarji, pseudonimo di Rami Youness, poeta di Damasco, studioso di letteratura italiana (ha tradotto in arabo Leopardi, Campana, D’Annunzio), e da Maria Grazia Calandrone, performer, drammaturga e soprattutto poeta tra i più rilevanti di questa nostra contemporaneità, “Rosa dell’animale” risulta essere un libro particolare. Uscito prima in Siria nel 2014, presso l’editore Attakwin, poi in Italia a fine anno per l’instancabile editore Zona, presenta un’importante prefazione di Adonis: Interrogare la domanda. Nell’introduzione si ricorda che: “Dentro l’Amore – poesia e dentro la Poesia – amore si cancellano le diversità legate alle notizie e agli eventi di ogni giorno. L’amore come la poesia è creato per essere accomunato allo stesso livello dell’esistenza, ed ha la capacità di oltrepassare le appartenenze etniche, linguistiche e politiche”.

Un moto, quello dei due lirici, di avvicinamento e di avvicendamento, un dialogo amoroso in cui stilemi e campi semantici si ritrovano: due lingue differenti, che diventano scandaglio di preghiere e riti. Universi e lessemi svariati per dire la stessa cosa: il fine ultimo è il riconoscimento dell’anima dell’altro, vegetale e animale al contempo, per approdare- come sostiene di nuovo Adonis – a “una presenza superiore, separarsi per ricongiungersi in modo più profondo, più ricco e più solido. È la distruzione dell’essenza del singolare per innalzare l’essenza dell’amore e del singolare-duale”.

Ci troviamo di fronte a un contrasto medievale rovesciato, dove la lingua si eleva e suggerisce, diventa trasmutazione lirica del desiderio fisico.

L’uomo si rivolge alla donna in questo modo: “il frutto del tuo corpo / è un grappolo di pendagli bianchi\ che cade / tutto in una volta / nella sorgente del tempo, ostruendo / gli sbocchi della conversione. / passi / nuda / tra linfa e corteccia / il tuo corpo il mio corpo / è sul fiore della notte sul neurocranio del bahamut”. La sorgente del tempo non travolge, petrarcamente, la donna verso l’oblio, anzi attesta la sua corporeità e fusione, dando vita all’alterità. La risposta è la seguente: “sono la feritoia e l’ultima cosa / della notte, sono il soffio iniziale / dalla bocca di un demone / solare, ipersensibile / come una molecola, sono un bianco organismo / infinitesimale e il mio passare / sotto la nudità della corteccia / diventa il canto delle capre e dei boschi”.

Attraverso la celebrazione della rosa dell’animale si celebra nella fusione il creato, i poeti fondano un cantico laico e privato, che si apre all’universalità e che coinvolge il mondo minerale e vegetale: ortiche, ruta, gladioli, e ancor di più quello animale: cerve, api, capre, mule (tutto un cosmo femminile) e si estende all’intero universo con le galassie alle origini del Tutto: “Mi presento a te come a una nascita”, afferma Maria Grazia, durante un’alba che restituisce la perdita e la gioia, la gioia innestata nel dolore della separazione. “Sul labbro dell’alba”, risponde Amarji.

Alla fine resta l’inno, il canto con cui si trasforma “il sangue della specie”. E tutto può ricominciare.

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