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Ventroni Sara (11.14)

 SARA VENTRONI, Le Relazioni
“Poesia” n. 298, novembre 2014

Sara Ventroni ci regala una bella anticipazione da una raccolta di prossima uscita, Le Relazioni. Il titolo sembra indicare qualcuno (o qualcosa) collegato a qualcuno (o a qualcosa) posto fuori di sé. E pure, il tono è quello di chi è solo – e incluso in una doppia solitudine: quella di specie e quella individuale-lessicale, quella di quando siamo travolti dal crollo di un universo lessicale. Quando una “relazione” finisce, insieme a quella si sgretola un mondo, levando funghi di polvere atomica, fatti dal dolore e dalla solitudine delle parole che erano state messe in risonanza e ora non sono più condivise. In questa solitudine, io che parlo, parlo ancora le parole del nostro lessico familiare e chi sa se anche tu le pronunci, dal cavo della tua solitudine. E chissà se le nostre parole si incontrano, chissà dove, adesso fatte solo di pensiero, senza voce né carne. È soprattutto la concatenazione semantica dei testi, a rivelarci questa lontananza: le frasi si annodano a formare trecce, colonne, come se avessero bisogno di – e riuscissero a – stare in piedi da sole. Sono parole slanciate in deriva, incatenate a reggersi in soliloqui: così è nella serie, fantascientifica e amara, sulla fecondazione assistita, apparentemente plurale, ma composta di molte figurine incomunicanti, dislocate in sequenze di altrove spaziotemporali. Altrettanto amara, pre-cognitiva e presaga è la scena, insistita, del vino che macchia l’abito della sposa in The deer hunter, testo che immaginiamo ispirato al film di Michael Cimino, storia di amicizia che era stata chiamata a essere indissolubile ed è caduta anch’essa sotto i colpi d’arma da fuoco di un destino più grande di quello di un uomo e dei suoi sentimenti particolari. Amori che si stagliano sul fondo sanguinoso della guerra umana (del Vietnam, ma di tutte le guerre). Tutto qui sembra dire io venivo dal deserto e la mia solitudine è stata, per il tempo che ho avuto, la fondamenta sulla quale svettava il mio amore, di qualunque natura esso fosse. Ma, scrive Ventroni, ad alcuni cade semplicemente il vino per distrazione, non si tratta per forza del seme di un destino che si sta formando, rivelando sventura. Non va infatti trascurato, sopra l’umana disperazione, il tocco sapido e sapiente dell’ironia dell’autrice, che sembra voler guardare a tutto questo svolgersi di faccenda umana come a quella di un mondo-giocattolo: Ventroni talvolta ci fa indossare, come Dippold, l’ottico di Lee Masters, certi suoi occhiali fatti di parole che ci prendono in giro. E lei con noi. Messa in gioco e scoperta, un io fra tutti. Unico, come tutti.

Quasi tutto, qui, è infatti in bilico tra disperazione e irrisione, tra destino e fenomeni da nulla, che recano in sé conseguenze impreviste, impreviste rinunce. E i ritorni e i ritornelli sono giri di boa emotivi intorno ai quali, come la spola di Penelope, si ricostruisce il tessuto di un mondo: con falsi movimenti, progressi e cancellazioni, fino a una benevola dimenticanza, fino alla consegna di un verso fantasma, lasciato a fine testo (e annunciato nel testo) come l’arto mancante che è la faccia oscura della luna e rappresenta – crediamo – l’attesa che nell’inconosciuto si annidi il conoscibile, il finalmente pieno di dolcezza e di acque, addirittura lunari, qualche cosa che c’è ma che, prima della rivoluzione, non vediamo: ché non sappiamo niente delle stelle e degli uomini, né ci è data la beata ignoranza animale e abbiamo financo superato la leopardiana interrogazione sopra l’infelicità.  

Così, in questi testi, “estinzione” e “tranquillità” sembrano termini coincidenti. Una secchezza dei mari, uno sbriciolarsi della specie nella propria stessa mancanza, convogliata in un tempo a venire, dove tutto sarà dimenticato, anche il dolore, anche l’euforia davanti all’ignoranza del cosmo, anche lo slancio della specie umana verso l’esplorazione del non conosciuto. Occorre intanto rifondare una terra sulla quale poggiare le punte dei piedi, come bambini, per rifare il salto. Per dimenticare – e per sporgerci di nuovo verso quello che abbiamo dimenticato – occorre rifare l’innocenza. Se non covassimo questo progetto, non scriveremmo: per farlo, usiamo questo mezzo provvisorio. Per farlo, tocca ritrovare la nostra città (linguistica), la nostra civiltà perduta sotto la maceria (di un amore, non dell’amore). È un bel compito, questo che ci diamo. E ci fa bene agirlo. Comunque andranno le cose.

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