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Carpe Invisibilia (OT Gallery, 6.15)

Carpe Invisibilia

 si entri uno alla volta

La stanza possiede un’unica via d’accesso:

la cornice bianca di una porta senza porta, al lato destro della quale è appeso un cartello smaltato di bianco che reca in stampatello la scritta color oro: “si entri uno alla volta”.

A prima vista la stanza appare vuota ed estremamente bianca.

Ma, volgendo attorno lo sguardo, il visitatore noterà, immediatamente a sinistra della cornice della non-porta, un orologio in cromo lucido, fissato alla parete per mezzo di un perno centrale che lo fa ruotare, alla velocità dei secondi, su ciascuno dei 24 spicchi numerati nei quali è diviso.

Lo spettatore penserà, dunque, che l’opera sia stata posta a significare che, in quel luogo, un giorno trascorra alla velocità di 24 secondi. Qualora l’ospite, nel frangente della visita, versi in condizioni di imperfetta salute psicofisica, si immalinconirà, ritenendo di venire indotto a credere che addirittura 2 anni della vita di un uomo possano sgranarsi e venire dimenticati come i 24 secondi di un unico giorno.

A prima vista la stanza è questo mero suggeritore di considerazioni superflue intorno alla fatuità del tempo.

L’ospite avveduto si accorgerà, però, che essa contiene anche tre figure bidimensionali, tre spoglie bianche, perfettamente identiche e perfettamente aderenti alle rispettive pareti, le quali – spoglie e, dunque, pareti a esse retrostanti – appena poste sotto il calore di uno sguardo umano, si animeranno di una certa crescente vitalità.

In una progressione parallela e contemporanea, le tre sfoglie d’intonaco, le tre candide larve, prenderanno infatti la parola e, con essa, la vita.

Questa è l’opera vera.

Le tre icone si faranno ora più o meno intorno al loro ospite.

L’icona a sinistra del visitatore gli dirà “sì”, quella a destra gli dirà “no” e quella che si è staccata dalla parete posta di fronte alla non-porta, dirà “forse”.

Poiché le figure possiedono una propria discrezionalità e indipendenza di giudizio, scopo non certo della presente installazione è la fusione delle sagome in un’unica entità del colore dell’oro, che prenda una decisione, affinché l’ospite frastornato possa tornare allo stato infantile di serena certezza sulle cose del mondo e sulle sue creature.

La riuscita di questa operazione dipenderà dalla relazione che l’ospite medesimo sarà riuscito a instaurare con le pareti della stanza. Tanto più egli sarà stato in grado di scavalcare le apparenze, immaginando in piena libertà e osservando con indiscriminato amore tutte e tre le figure del piccolo dramma, tanto più egli avrà infuso calore a quel triplice altare verticale, tanto più il corpo appena nato assumerà una terza dimensione, nella quale si innerveranno circuiti venosi e prenderanno forma e consistenza i consueti organi umani.

Se le cose poi andranno veramente al meglio, accadrà infine che da quegli occhi nuovi verranno emanati sguardi del colore dell’oro fuso. 

È purtroppo accaduto sovente che gli ospiti abbiano desistito prima del culmine della bellezza, bofonchiando frasi delle quali abbiamo colto esclusivamente le significazioni finali, nella forma gergale di “sangue dalle rape”, difficile da contestualizzare nel presente contesto mitologico.

Si rimanda per ciò a esegeti maggiormente disincantati.

Scopo finale dell’installazione è, quindi, che quell’oro, così colato in una forma umana, si risolva a prendere l’amante-generatore sottobraccio e con esso fuoriesca dalla camera bianca, producendosi in una passerella di benevolenza.

L’unica volta che la creatura d’oro è uscita dallo spazio bianco, si narra abbia scelto di bere la selezione di caffè soprannominata “veleno”.

Si segnala per ciò l’opportunità di recarsi a visitare l’opera premuniti di una vestaglia o, perlomeno, di un gonnellino di paglia, di un kilt, di un pannicello di qual sia natura, col quale ricoprire la Figura, allo scopo di evitare che essa susciti passioni amorose e/o incontinenze di natura difforme negli avventori del caffè, negli spettatori in fila lungo i corridoi della galleria, o, peggio, nei funzionari del museo, i quali, profittando della propria quotidiana frequentazione del sito, potrebbero occupare la stanza in via permanente, agiti da comportamenti ossessivi e/o aggressivi.

In tempi non remoti è infatti accaduto di trovarci costretti, nostro malgrado, alla rimozione forzata di un individuo incappucciato che guaiva – accompagnandosi con effetti di dubbia lega elettronica – inginocchiato ai piedi della parete di mezzo, all’evidente scopo di estrarre almeno un “forse” da quella bianca miniera ortogonale e lamentando di venire altrimenti inzuppato dalla pioggia acida consuetamente denominata “disamore”.

Perché l’Opera continui a essere tale, è infatti necessario l’avvento di un nuovo scisma:

il corpo, posto in stato di solitudine al centro della stanza, dovrà tornare a scindersi nelle proprie tre spoglie, le quali si scioglieranno nello spazio bianco della struttura-madre.

Roma, 22.1.2015

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