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poeti e prosatori alla corte dell’Es (AnimaMundi, 2017)

contributi di: Donatella Bisutti, Franco Buffoni, Maria Grazia Calandrone, Milo De Angelis, Alessandro Defilippi, Laura Liberale, Franco Loi, Fanca Mancinelli, Umberto Piersanti, Fabio Pusterla, Giovanna Rosadini, Francesca Serragnoli, Miro Silvera, Giovanni Tesio

1) Quest’anno (2016) ricorrono i 150 anni dalla nascita dell’”analista selvaggio”, la cui celebre frase <<non è vero che noi viviamo, in verità noi in gran parte veniamo vissuti>> ha trovato eco nelle testimonianze di molti autori sulla nascita delle loro opere. Per citarne solo alcuni, Jean Cocteau affermava << noi non scriviamo, siamo scritti>>; Edoardo Sanguineti (che si riconosceva “groddeckiano selvaggio”): <<si è scritti oltre che scrivere e più che scrivere>>. Edmond Jabès, forse il più dissacrante di tutti: << ho scritto un solo libro ed era già scritto>>. Si riconosce anche Lei portavoce dell’Es, cioè di una forza misteriosa che ci trascende?

Comincio a rispondere a queste domande nella mattinata per me fantascientifica in cui Trump è stato eletto presidente degli Stati Uniti. Ancora: comincio a rispondere pochi giorni dopo l’ennesimo, incomprensibile sgombero del “Baobab” di Roma, centro volontario di prima accoglienza dei migranti diretti verso il nord Europa. In questo momento la “forza misteriosa che ci trascende” sembra quella del potere economico e burocratico (leggi: paura, formalizzata in astratta durezza legalitaria) di altri esseri umani, che paiono una specie solo in apparenza simile alla nostra, come nel film L’invasione degli ultracorpi. Ma,  poiché sono una poetessa e siccome ho due figli, ho il dovere di non smettere di avere fiducia nel genere umano, dunque rispondo appellandomi alla parte di me che continua a “credere all’invisibile”, per dirla con Cesare Viviani.

Però. Mi ha sempre imbarazzata ritenermi un essere speciale. Semplicemente, i poeti utilizzano le parole per accedere a zone dove altri accedono grazie all’amore, al volontariato, all’arte culinaria o a qualsiasi altra forma di intrattenimento.

Milo De Angelis, nelle prime righe di introduzione alla sua opera provvisoriamente omnia, afferma: “scriviamo con una parte di noi che non conosciamo interamente, che è nostra e non è nostra, che scaturisce da una zona oscura e segreta anche per noi. Segreta e a volte sconvolgente. Ma così deve essere in poesia: per cambiare la vita di chi lo legge, un libro deve sconvolgere quella di chi l’ha scritto.”

Altrettanto afferma, più sinteticamente, Szymborska: “Ve lo dico / dal mio cuore sconosciuto”.

Ovvero: più si indaga, meno si conosce – o meglio: più si sa di non sapere. Anche questo, già detto, dalla socratica notte dei tempi…

Ma sottoscrivo io pure, per esperienza: attraverso le parole, io pure ho accesso a zone che mi erano sconosciute.

Ma non zone di me: ho l’illusione che si tratti di zone interiori di altri e del mondo. Uno psicoanalista old-style a questo punto scuoterebbe la testa pensando a un caso disperato, a una specie di proiettore seriale in forma umana. Ma valichiamo l’immaginario sconforto dello psicoanalista immaginario e confermiamo che è proprio vero: per taluni è così, le parole sono un potentissimo metodo per la conoscenza dell’altro e del mondo. Ponendo un essere umano nella particolare postura meditativa fatta di vuoto che favorisce la scrittura, le parole si inanellano da sole nella sua mente, una dopo l’altra, e lo portano in luoghi dove non era mai stato. Questo è un miracolo quotidiano e riproducibile, qualcosa che non smette di accadere. E il suo accadere non smette di sorprendere. Ogni volta si scende un gradino più a fondo. E, più si scende, più si comprende che la profondità coincide con l’altezza, ovvero con lo sguardo che abbraccia porzioni sempre più ampie di esistente. E però: mai abbastanza, mai abbastanza…

2) Nel lasciarsi andare all’ascolto delle proprie intime profondità <<si spalanca un abisso che può travolgere>> (Andrea  Zanzotto). Poesia, questione d’abisso, come diceva Paul Celan?  Se è vero che la poesia ha una base necessaria e autobiografica, legata forse a un trauma originario dell’infanzia (secondo Jean Paul Weber, ripreso da E. Sanguineti ne “Conversazioni sulla cultura del ventesimo secolo”) e sicuramente agli eventi significativi della nostra vita, ha per Lei anche una valenza salvifica?

Come ho scritto qui sopra, non intendo la poesia come un ascolto delle mie intime profondità, la convivenza con le quali già mi annoia terribilmente nella vita quotidiana. Sarebbe una perversione masochista riportare la mia irrisoria particola d’essere nella zona di vuoto – che è in primo luogo vuoto di sé – e di spaziosità e di libertà nella quale veniamo posti sotto osservazione e talvolta raggiunti dalla poesia. Intendo piuttosto la poesia come una discesa nella parte di noi che è la parte comune all’umano, ovvero in quella zona della nostra persona dove ciascuno di noi somiglia a qualunque altro sulla terra. Prima o poi mi spingerò a includere gli oggetti, l’apparentemente inanimato, in questa vasta similitudine: le ultime scoperte della fisica confermano quel che i poeti intuiscono dall’origine: la materia, l’esistenza tutta, è fatta di vuoto o di relazione. La materia (l’esistente) è esclusivamente: relazione. Altrimenti, è Vuoto.

Ben prima di me Katherine Mansfield si applicò a esercizi del genere. Così scrive di lei Pietro Citati: “Nella lettera a un’amica pittrice, la Mansfield raccontò di come, al mercato, si fermò davanti a un carretto di mele e rimase stupefatta a guardarle. Non aveva altro desiderio che diventare quelle mele. E chiedeva all’amica: «Quando dipingi le mele, senti che il tuo seno e le tue ginocchia diventano mele? O ti sembra una sciocchezza?»”.

In questo senso, dunque, la poesia ci salva: dalla solitudine nella quale veniamo gettati nascendo – e ci salva proprio mentre richiede solitudine al nostro quotidiano, mentre approfondisce il nostro isolamento visibile. Il noto paradosso delle arti…

Ma ciascuno di noi è una moltitudine. Il diabolico (dia-ballo: mettere in mezzo, separare, creare divisione) “io sono legione” vale per ciascuno di noi. Chi di noi non è “legione”? Chi mai ci può ridurre a una sterile assenza di ambivalenza e di contraddizione? Neanche l’amore può. L’amore umano che, come la poesia, per un tratto ci fonde all’universo, annulla le differenze.

Se in un essere umano convivono i due principi di fusione A e P (Amore e Poesia), esso (pronome neutro) comprende di essere composto da galassie in rotazione e materia oscura. Più o meno come un tavolo. La medesima forza elettromagnetica.

Per maggiore chiarezza, riporto uno stralcio di quanto scrissi per la puntata radiofonica di “Qui comincia” del 2 novembre 2015, che chiamai il bacio delle stelle: “la fisica sta scoprendo che la materia è fatta esclusivamente di relazioni tra parti talmente piccole da essere impercettibili, per noi oggi praticamente inesistenti, ovvero che esistono solo in quanto relazione. Niente di reale, quindi, esisterebbe al di fuori di una relazione. La materia che tocchiamo è fatta di relazioni, di movimento e principio di attrazione elettromagnetica. Questa cosa mi è intuitivamente molto chiara e la trovo molto commovente. Mi fa venire in mente il ronzio del cosmo interiore che James Joyce ha voluto riportare nel suo Ulisse. L’Ulisse dantesco è una forma della grandezza umana che, però, non adopera gli strumenti appropriati per varcare la soglia della ragione. Joyce prova a mettere sulla pagina l’irrazionale assoluto, il flusso libero della coscienza, reso con la massima fedeltà possibile: è un altro modo di passare le colonne d’Ercole della ragione. Come se Joyce desiderasse riprodurre la radiazione stellare della nostra anima – i rombi della rotazione delle stelle che sono dentro di noi”.

3)<<Nei sogni siamo veri poeti>> ( Ralph Waldo Emerson) ovvero <<il poeta lavora>> quando dorme (Saint- Pol – Roux).  Per lo psichiatra esistenzialista e fenomenologo Ludwig Binswanger  il sogno è una forma specifica di esperienza (Sogno ed esistenza),  per il regista russo Andrej Tarkovskij  la poesia è << una sensazione del Mondo, un tipo speciale di rapporto con la realtà>>. Quale relazione c’è per Lei tra sogno e poesia?  

Quando ero piccola sognavo di dire ad alta voce, in uno spazio immenso, vuoto e luminoso, poesie che mi parevano perfette. Mi svegliavo desolata di non ricordare non tanto i versi, bensì il mondo dal quale provenivano e del quale provavo nostalgia. Non riconoscevo il mondo sognato nel mondo reale.

Da bambina il mio quotidiano non era felice e quell’altro mondo mi pareva invece perfettamente equilibrato e  buono.

Guidata dalle parole, mi sono immersa sempre più nel mondo che ricordavo di vivere in sogno e a lungo ho creduto di trascurare, così, il mondo così detto “reale” (uso qui questa parola nella sua forma borghese e convenzionale, ma intendendo pure quanto al momento è scientificamente dato sapere sull’esistente).

Andando avanti a vivere, ho capito (ricordato?) che non c’è alcuna differenza tra sogno-poesia e realtà, che la convenzionale dicotomia non è che una imposizione a posteriori della nostra specifica forma di civilizzazione e contenimento delle emozioni in un ordine che dobbiamo per la gran parte, credo, alla sovrappopolazione (qui avrei bisogno del conforto di un antropologo): nelle civiltà antiche, come in alcune a noi contemporanee, gli dei e i morti, personificazioni dell’invisibile, convivono con i viventi e dialogano insieme.

Si potrebbe obiettare che, vivendo, io sia semplicemente riuscita a rendere la mia vita più felice e, dunque, più omogenea ai miei sogni infantili, nei quali, forse, il ricordo di una qualche gentilezza vissuta, teneva accesa la memoria di una meta. Non è così, perché la felicità reale, che pure ho avuto, ha una qualità diversa da quella dei sogni e, soprattutto, è completamente muta. Quel mondo, invece, veniva reso vero dalle parole, veniva distillato e stillato dalle parole – ed era luminoso e interminato come non ho mai visto essere la bella terra.

Dunque ho compreso che parlare di sogni e di invisibile non significa affatto parlare di illusioni e fantasticherie, ovvero di qualcosa di irreale: i sogni, i desideri, i nessi elettromagnetici tra le cose in sé e tra cose e persone, gli influssi impalpabili, onirici e illogici tra persona e persona, sono fatti concreti, lo stadio più profondo e più vero della realtà, ovvero la realtà vista com’è: nella sua completezza e nella sua interezza, composta di visibile e invisibile. Uno sguardo che, credendo di essere realista, si attenesse esclusivamente al visibile, sarebbe lo sguardo recintato e triste di un burocrate, di un santommaso che ha paura della risurrezione e ha bisogno di mettere il dito nella piaga della realtà, per entusiasmarsi, infine.

Le ferite di Cristo sono, per il miscredente, la porta dell’invisibile, la sua prassi. Chi non crede domanda sacrificio, costringe l’invisibile a piagarsi, per dimostrare la propria esistenza.

Io sono laica, intendo la religione come una grande struttura simbolica, amo istintivamente il mondo e, invecchiando, imparo ad accettare che il mondo qui convenuto sia quel che è e ad amare il mondo e i suoi abitanti per quello che sono. I poeti, l’ho scritto tante volte, e gli artisti tutti, portano al mondo una memoria comune. Mi convinco sempre più che, se la vista di quel mondo onirico proviene, come credo, da una qualche memoria collettiva di bene, sia nostro compito morale cercare di portare il mondo reale all’altezza di quanto tutti ricordiamo sognando.

4) Con Freud i sogni sono diventati la via regia dell’inconscio e vanno contestualizzati attraverso l’interpretazione, per non restare lettere mai aperte come già si leggeva nel Talmud. Recentemente alcuni psicoanalisti ritengono più raccomandabile non solo e non tanto interpretare, cioè rendere conscio ciò che è inconscio, quanto giocare col sogno, sognare sul sogno e col sogno, rispettare l’illusione o per ampi tratti favorirla. Riguardo la poesia Elias Canetti, in “Un regno di matite”, ha scritto: << Giochiamo con i pensieri, per evitare che diventino una catena>> e ha ammonito: <<Triste interpretazione! Morte delle poesie, che si spengono per astenia quando vien loro tolto tutto quel che non contengono>>. Lei è d’accordo o ritiene che l’Es venuto alla luce nella poesia necessiti ancora di essere decifrato? È fedele all’Es che erompe nella scrittura o lo tradisce traducendolo? O forse è applicabile alla Sua scrittura la parola tedesca ” Umdichtung”(che significa una poesia elaborata a partire da un’altra) ?

Non so mai, non so assolutamente mai cosa scriverò, quando comincio a scrivere. Questo vale ugualmente – e forse più ancora – per commissioni e interviste, inclusa questa. Scrivendo, scopro cosa penso e cosa so. E lo lascio così, nudo, come emerge dalla materia oscura che sono, “dal mio cuore sconosciuto”, come direbbe appunto Szymborska che, poco prima, scrive, concentrando in poche parole una verità durevole: “conosciamo noi stessi solo fin dove / siamo stati messi alla prova”.

Szymborska sopporta e addirittura canta la solitudine umana, la provvisorietà dell’esistente e la destabilizzante casualità del caso. La sua lezione è svolgere questo canto di cose precarie con la leggerezza partecipe che può venire solo dopo l’angoscia novecentesca per la perdita del punto di vista forte e univoco sulla realtà, l’imposizione del quale porta conseguenze ben più gravi che sentirsi una specie smarrita nel nero del cosmo: porta danno e massacro. La leggerezza di Szymborska viene dopo la splendida desolazione eliotiana.

Poesia dunque che, come sempre la poesia, viene dal mondo e dalla sua constatazione e dalla constatazione che di esso hanno fatto altri, poeti inclusi, prima di noi.

Tuttavia, è certamente vero che l’esperienza formi uno stile, ovvero un particolare modo di dire le cose e che, dunque, con la chiave in mano dello stile che abbiamo lottato e studiato e indagato per possedere, si aprono le porte di altre poesie da scrivere e le parole per dire nuovi sogni.

I grandi poeti, però, come credo facciano i grandi psicoanalisti, fanno molta attenzione nell’evitare gli automatismi, cercano di non scrivere sempre lo stesso libro e non vogliono sognare sempre lo stesso sogno, pur mantenendo intatto almeno un cardine di rotazione delle proprie parole, che sono a volte la loro anima stessa, consegnata nuda a te che leggi e insieme a me comprendi.  

5) Il linguaggio è l’archivio della storia, la tomba delle muse: << poesia fossile>>.  <<Un tempo ogni parola era una poesia>>, << un simbolo felice>> (Emerson). <<Gli dei concedono la grazia di un verso, ma poi tocca a noi produrre il secondo >> (Paul Valéry). Oppure:<<Se la poesia non viene naturalmente come le foglie vengono ad un albero, è meglio che non venga per niente>> (John Keats).  Come nasce la sua poesia e come si sviluppa? Quali condizioni la favoriscono?

La fiducia nel mondo. Uno stato d’animo espansivo e fiducioso è indispensabile alla nascita della mia poesia, una disponibilità all’accoglienza e all’ascolto. Per scrivere, è necessario che io mi lasci attraversare dalle storie degli altri, dallo sguardo degli altri, dal punto di vista degli altri.

Ho imparato che esistono tanti mondi quanti sono gli esseri umani che osservano il mondo e dunque, con convinzione sempre maggiore, percorro la duplice strada di indagare questa dolorosa separazione, da una parte accettandola e dall’altra allungando una mano fatta di parole verso il punto della similitudine assoluta. Per lasciare una carezza senza tempo né luogo al centro dell’essere umano.

Questo vuol essere la mia poesia.

6) <<Ogni pensiero inizia con una poesia>> dice Alain ed è noto che nella storia dell’umanità la poesia ha preceduto la prosa.  La poesia ricorda l’infanzia dell’uomo e i poeti sono dei grandi bambini, degli <<eterni figli>> (tema ripreso anche da Sanguineti). Per altri versi, la poesia  afferirebbe al codice materno mentre la prosa a quello paterno: la prima, secondo lo psicoanalista Christopher Bollas (ne: “La mente orientale”) è più legata alla presenza di pensieri – madre, <<strutture (che) mantengono il tipo di comunicazione che deriva dal modo di essere della madre col suo bambino>> con forma sintattica più semplice e più vicina al linguaggio orientale, la seconda al linguaggio occidentale e paterno, basato su espressioni verbali più articolate e complesse che ci lasciano meno liberi, sacrificando l’invenzione a favore dell’argomentazione. Due mondi alternativi, la prosa e la poesia, o due parti che possono entrare in rapporto e/o in successione? Qual è la Sua esperienza al riguardo?

Approfittando della suggestiva distinzione suggerita tra poesia (materna) e prosa (paterna), mi spingo a fare un’ulteriore distinzione, utilizzando la categoria del tempo: la prosa, come la realtà fisica, possiede un tempo lineare – la poesia, come il sogno, un tempo ciclico o immobile. Il tempo lineare è ovviamente il tempo della realtà e della ragionevolezza, dello svolgimento del pensiero logico e del corpo. Il tempo ciclico o immobile è il tempo fusionale, quello della folgorazione, che immobilizza il tempo in un frammento eterno.

Ovvero il momento dell’ispirazione.

L’ispirazione è una sequenza più o meno breve di parole roventi, ancora goccianti dell’amnio dell’invisibile dal quale – in quel momento – sentiamo con certezza di provenire.

Ancora una volta, per esemplificare il mio pensiero, mi rifaccio a una parte di una puntata di “Qui comincia”, alba elettrica, del 21 novembre 2015, dove si insiste sulla contrapposizione contradditoria e successiva di due modalità del pensiero, del desiderio e persino dell’immagine di sé: “il concetto di “immaginario”, secondo Roland Barthes, dapprima  è segno di una pulsione desiderante di radice “materna”, opposta al “simbolico”, luogo della legge, del divieto e del “paterno”. L’immaginario comporrebbe una lingua flessibile e mobile, significante, opposta a quella rigida dei significati. Più tardi, però, Barthes affermerà che “la scrittura permette di liberarsi dall’immaginario, che è una forza molto immobile, abbastanza morta, abbastanza funebre”. Il rovesciamento teorico di Barthes ricorda il rovesciamento dell’immagine di sé (da fragile a mostruoso) che all’improvviso e con orrore di sé afferra l’innamorato, colui che parla il discorso amoroso: l’enorme, lo schiacciante discorso amoroso che – in un illuminante e terribile momento di coscienza – fa comprendere all’innamorato di non essere il fragile soggetto assoggettato che credeva di essere, ma “una cosa ottusa, che va avanti ciecamente, che schiaccia ogni cosa sotto il peso del suo discorso; io che amo, mi rendo indesiderabile, sono messo sullo stesso piano degli importuni” – perché “il discorso amoroso soffoca l’altro, il quale, schiacciato da questo dire massiccio, non trova spazio per esprimersi. Non è che io gli impedisca di parlare, ma so come far scivolare i pronomi: “io parlo e tu mi comprendi, dunque siamo” (Francis Ponge). Talvolta, con terrore, prendo coscienza di questo rovesciamento:”. Dunque l’innamorato, all’improvviso e con orrore di sé, prova vergogna per il modo barbaro con il quale ha condotto il proprio incontenibile amore. Eccola, la sublime vergogna di chi ha schiacciato un altro con il proprio incontenibile discorso amoroso.”

Ovvero con un discorso condotto in un tempo fuori dal tempo, come sempre è l’amore quando comincia: prima di nascere, prima di cadere nel tempo, come ogni creatura terrestre, secondo la bellissima dedica di Marina Cvetaeva al suo Mur: “nascere, piccolo, è cadere nel tempo. / Dal non-dove, non-terra, / così rovinosa / discesa!”

7)Il momento della scrittura o “l’attimo della parola” accade, per Peter Handke,  in presa diretta con l’esperienza; per dirla con Borges (in: “L’invenzione della poesia”), <<la poesia è sempre in agguato dietro l’angolo>>. E per lei? Ha anche Lei un taccuino che l’accompagna in ogni luogo?

Sì. Anche di notte. Prima dell’invenzione dei telefoni portatili avevo una penna luminosa, per scrivere senza disturbare il sonno degli altri.

8)  C’è un altro aspetto del rapporto tra scrittura e ES che vorrebbe affrontare?

No, grazie, mi accorgo di essermi già più volte contraddetta, di avere già divagato e non risposto abbastanza!

Maria Grazia Calandrone vive a Roma: poetessa, drammaturga, artista visiva, performer, organizzatrice culturale, autrice e conduttrice di programmi culturali per Radio 3, scrive per “Corriere della Sera” e “il manifesto” e cura una rubrica di inediti per il mensile internazionale “Poesia”. Tiene laboratori di poesia nelle scuole, nelle carceri e nei DSM. Libri: La scimmia randagia (Crocetti, 2003 – premio Pasolini Opera Prima), Come per mezzo di una briglia ardente (Atelier, 2005) La macchina responsabile (Crocetti, 2007), Sulla bocca di tutti (Crocetti, 2010 – premio Napoli), Atto di vita nascente(LietoColle, 2010), L’infinito mélo, pseudoromanzoconVivavox, cd di sue letture dei propri testi (sossella, 2011), La vita chiara(transeuropa, 2011), Serie fossile(Crocetti, 2015 – premi Marazza e Tassoni, rosa premio Viareggio), Per voce sola (ChiPiùNeArt, 2016), raccolta di monologhi teatrali, disegni e fotografie, con cd allegato di Sonia Bergamasco con EstTrio e Gli Scomparsi – storie da “Chi l’ha visto?” (Gialla Oro pordenonelegge, 2016); è in Nuovi poeti italiani 6 (Einaudi, 2012). Dal 2009 porta in scena in Italia e in Europa il videoconcerto Senza bagaglio (finalista “RomaEuropa webfactory” 2009). Ha collaborato con Rai Letteratura e Cult Book (Rai 3). La sua poesia è tradotta in molte lingue. Il suo sito è www.mariagraziacalandrone.it

da Sulla bocca di tutti (Crocetti, 2010)

La chiara circostanza

La clamorosa dolcezza delle clavicole, la percussione cessata
dei finimenti muscolari, le valvole
che l’hanno finalmente abbandonata
sulla terra, l’angolo umile che fa la testa
per celare il sorriso
sulla cruda colonna del corpo
dice: ti ho aspettato per tutta la vita
ho visto la tua vita
nei miei sogni e tutta, notte
dopo notte, si risolveva nel perdono. In certe svolte
quando il cielo pieno di meraviglia coincideva
con la bolla degli alberi agitati dalla piena
luna, io mi svegliavo
per causa dei tuoi sogni
e portavo il tuo nome come una bandiera
che saliva dal petto e mi rendeva
invisibile: di me
si vedeva soltanto il tuo nome. Io sapevo
che avremmo dovuto terminare vicini
qualunque cosa nel frattempo fosse stata di noi. Adesso
eccomi, sono qui per finire
nella tua fine, per aspirare l’ultimo respiro
dalla tua bocca
e soffiarlo attraverso la bocca
che dopo te nessuno ha più baciato,
al cielo.
 
Roma, 14 febbraio 2008
 
Forme del cranio umano
 
I
Cose fuori dalla portata degli occhi
 
Come per fasciatura rituale
queste croci di spighe
immature
sul corpo anch’esso verde, incorruttibile
calamo
forgiato in un metallo dove attingiamo
nomi, laude
ed è mera materia che impariamo a usare come canto: ecce
corpus
meum
in absentia
carnale
sfruttato in questo altissimo dominio
fin che ha mandato stille
di morte e di rinascita
– quia ad omne supplicium paratum
est, sempre in estasi – raptus
semper, Signora
della Perdita, perché il canto dei morti si accumula
ed è lavoro nuovo – fiore
di campo e rosa
di tutti i giorni.
 
II
Tutta per alto
 
Siedo sola
con l’impressione della moltitudine: arriva
alle spalle
dal non condivisibile
un soffio leggerissimo e continuo
che trascrivo
come il tracciato della febbre
o la moltitudine attiva delle formiche
sulla figura assolta dall’officio umano.
 
29 luglio 2008
 
da Serie fossile (Crocetti 2015)
 
© – fossile
 
metti una mano qui come una benda bianca, chiudimi gli occhi,
colma la soglia di benedizioni, dopo che
sei passata attraverso
l’oro verde dell’iride
come un’ape regale
e – pagliuzza
su pagliuzza,
d’oro e grano trebbiato –
hai fatto di me
il tuo favo di luce
                             
una costellazione di api ruota sul tiglio
con saggezza inumana, un vorticare di intelligenze non si stacca
dall’albero del miele
 
                                   – sarebbe riduttivo dire amore
questa necessità della natura
                                                     
                                                    mentre un vuoto anteriore rimargina
tra fiore e fiore senza lasciare traccia:
                                                              
                                                              usa la bocca, sfilami dal cuore
il pungiglione d’oro,
la memoria di un lampo che ha bruciato la mia forma umana
in una qualche preistoria
 
dove i pazzi accarezzano le pietre come fossero teste di bambini:
 
                                                                                                avvicinati, come la prima
tra le cose perdute
e quel volto si leva dalla pietra per sorridere ancora
 
24.5.13
 
§ – insufflare
 
quando l’ape si stacca dal fiore, la sua piccola struttura composta
di righe sature gialle – fatta
da una dottrina di erbe medicamentose – si comporta
come un oggetto di sconosciuta bellezza
 
quando l’ape si stacca dal fiore, l’intera struttura
dorsale è intaccata da un gelo
lucido e astrale
di bambini lasciati sulla sabbia salata
come costellazioni terrestri
di calce ferma
 
i bambini abbandonati una volta
se ne vanno per sempre, per sempre
tornano
aspirati dal vento
come campane d’acqua
 
sono piccole cose che volano,
                                                 pula
nella copiosa gratitudine
che consuma quei volti
come cera, perché quelli sono
il neutro, la zona orfana
del mondo – quelli non hanno corpo, hanno grandi e sottili apparati
radicali divelti, ruotano come stelle
sopra il tuo corpo addormentato – entrano
dentro la commozione della tua figura semplicemente
soffiando all’angolo della tua bocca
la bellezza ancora addormentata del mondo, quella
che dal primo giorno
sopportano da soli:
                               ora porta con me
lo struggimento, allena tutti i muscoli del corpo
a stare fermi sotto la grande ruota dell’amore:
                                                                          solo la perpetua, solo l’insostenibile
bellezza del mondo
verrà travasata
in te come il più dolce
dei mali, come nell’ancia di una canna che suona
                                                                                – e tu amplificherai
lo splendore del mondo, tu sarai senza involucro
e senza impedimento
 
maggio muta le rotte dei pianeti
dunque se tocchi il muto della creatura,
il suo piccolo rogo di abbandono
dietro le costole, lei si avvicina come si risaldano i pianeti
all’orbita di Giove
e rinasce
e rinasci
                come dai semi addormentati sotto
la zolla, per un legame impetuoso
di obbedienza primaria, lungo una scala ascendente di gioia, da tutto il campo appare
                                                                                                                 all’improvviso
l’imperdonabile, la bellezza perduta
 
25.5.13
 
◌ –all’indimenticabile
 
dunque cominci l’opera manuale
sulle disorientate stelle – come
riordinare l’impervia materia
all’inizio del mondo, riallacciare le stelle una all’altra col filo di una lacrima – riformare le coppie degli
                                                                                                                                              astri: due a due
se ne andavano per il firmamento, compatto
e senza collasso – la materia sapeva
quel che faceva, era
soddisfatta
roteando così
lu-mi-no-sa-men-te
                                   – o – 
                                              stando ferma così, quando doveva,
nella mutezza nera del creato
 
poi venne il lampo e venne l’atmosfera – e con il lampo venne la caduta
della volta celeste:
                                ahi!, rogo
di crematorio, lingua
biforcuta, innalzata fra esangui
monconi
di giuramenti
 
{il rumore di fondo dello spazio è il rumore domestico delle stoviglie, che echeggia a lungo
tra le rovine, questo povero modo di tornare umani}
                                                                                     – a ogni catastrofe, a ogni bruciatura
del nervo del sollievo (lo tenevi sul petto, il magnete
che ordina il caso
e ne fa il tuo destino): per ogni piccolo disastro, per un nonnulla in noi
 
segue il rilascio di un’indifferenza: grigioleggera, lieve come cenere
che non tocca chi tocca
                                      e non consola – come a levante
                                                                                         brucia l’antimateria, lo splendore
 
nero dell’autosufficienza:
 
l’antistante, l’astratto
bene di Dio, che sa di diserzione
se non lo strugge
un rimpianto di quanto fu umano
 
5.6.13
 
Θ – per alba
 
l’anima mia è un dio umano,
                                                un uccello d’altura
 
che ogni notte nidifica nel chiaro
del tuo petto
come un endecasillabo perfetto
                                                                          
                                                     (cosa) bianca e copiosa, ala sottile – rosa
                                                      e roveto, cenere – parva
                                                      tra stelle profuse,
                                                                                    bianco sangue
di spugna tubolare
nel bianco planetario, bianca tigre
seduta ai bordi della bianca strada senza dolore
 
l’anima mia cresce dalle tue ossa
come una rosa da una lingua viva
                                                       – a stille,
                                                                       a emorragia
                                                                                             – dal tuo alfabeto
                                                                                                                           inimmaginabile
 
ma è da questo corpo,
dalla sua silenziosa mietitura
che viene il verbo,
questo pane assoluto
che ti offro, questa bellezza
viva, fatta per te
 
6.6.13
 
evocare l’alba
 
sono io che ti suscito?
 
                                      questa tenera cosa
questo caldo umano
che si leva da te
è tutto fatto dalle mie parole
                                  oppure
preesisteva
 
e risponde al richiamo?
 
 
tu esisti e tu prescindi
sei tu l’origine di questa specie
 
di bellezza parlante
che si offre, orlo
alla tua bellezza
 
viva
 
e incredula,
                     risuscitata
 
17.6.13
 
abbi cura di lei, mi ha detto. sì, ho detto io. amala, mi ha detto. sì, ho detto io. non lasciarla mai sola, perché attraverso il tuo amore lei ama se stessa. e io, non ho potuto più rispondere
 
22.9.13
 
® – mieleambra
 
no, l’amore non ha la crudeltà né la dolcezza
dei fenomeni umani: ha la fermezza della vita che sfonda
il suo particolare: si manifesta, prima
                                                         come una sfumatura, d’oro verde e bronzo
                                                         fuso, nelle iridi.
un colore più denso dello sguardo. l’occhio 
non è più un trasparente occhio umano, è impenetrabile come oro
– e fisso. noi pensiamo: ripesca dai secoli
lo sguardo della bestia. basica, nel profondo. diciamo: ecco l’occhio rotondo e senza palpebra
della tigre e dell’aquila. chiamiamo: tigre-amore. mia aquila, serpente, asina santa.
 
ma per quanto ingannarci? quello sguardo è più intenso
e più giallo: pensiamo allora
a una zolla di limo, all’immortale
fango dal quale siamo fatti: uno sguardo-deserto. pensiamo (ah, la bestemmia!
del pensiero): quando eccede il suo limite umano, chi ama attinge dall’inanimato
il suo colore vasto di deserto e savana.
dunque diciamo: deserto-amore, sguardo immobile della natura sola
 
deserto che rovesci, da quelle orbite disumanate, sopra di me il tuo grano.
 
non è però spiegata la compattezza, la coerenza rotonda della pietra, viva
al centro dell’essere. né il suo ronzio. diciamo allora: fossile (bastava aprirsi
e sentire): cosa comunque
inumana – magnete
prestorico, minerale
neutro
della neutralità della materia.
 
ma non è tutto: in quello sguardo c’è una pulsazione
involontaria. andiamo indietro, prima dello sguardo
opaco della pietra. andiamo a quando il fossile era vivo. andiamo al gesto:
 
ecco la goccia d’ambra
che passa sopra l’animale vivo,
la lacrima
dell’albero spaccato, la fibra aperta come un cuore aperto che trabocca
il caldo della linfa, ecco l’essenza
che si farà pietra, cosa dura
aumentata in bellezza dal suo ospite vivo. imprigionato (sembrerebbe) nel traslucente.
 
ma quello sguardo è il gesto di colare della materia prima
della volontà, che si scinde e rifonde
per contenere altra materia viva: ecco
lo stato liquido del fossile, lo slancio involontario della pietra
quand’era ancora viva e permeabile. quello sguardo è l’assenso della materia
che si schiude e fluisce
verso un’altra creatura della terra
per accoglierla irreparabilmente: un corpoanima
si apre, sgocciola il proprio miele
dentro altri occhi. ogni sua fibra è pronta
a farsi abitare – e, se respinge, ora che fibra
è commista con fibra, deve respingere il suo stesso corpo, deve oscurare il giallo cuore d’ambra.
                                                                                                                                                 eccola!
 
la continua fatica dell’amore: riaprire la materia, il filamento
duro, scostare
                      la fibra gialla, fare spazio alla larva dell’amato
nel rogo della pietra, in mezzo al corpo, dipanare la massa
della materia.
                      eccola!
l’incoscienza dell’amore: retrocedere
al gesto primordiale, al
bello come una scienza naturale: la voce fossile della materia, da tutte
le bocche, da tutte
le fauci, i musi, le cartilagini, dolenti
di gioia e di bellezza degli amanti, continua a dire più
che io ti amo: continua a dire
, come dice il viluppo dell’amore
alla vita che irrimediabilmente
la cambierà. dopo, non c’è ritorno:
                                                      dopo, ogni intercapedine, ogni crepa
lasciata
dai vivi e dai morti alla superficie del mondo
dice: versati!
sul nudo della terra
per raccogliermi,
                          gocciola il miele della tua figura sulla mia
figura, assimila a ogni alba
la mia figura in te, rinnova il patto di conservazione. continuamente,
                                                                                                           , continuamente.
28.9.13
 
lettera immaginaria

                                                dov’ero carne essa era avorio
                                                               (Pier Paolo Pasolini)
 
alba
di tenera
carne, stretta
nell’esoscheletro della Legge
 
nel tragico
mese di novembre
piangeva tutto
 
tienimi forte, fuori
dal limite umano
 
tienimi come una madre
che abbraccia in sogno
 
22.12.13
 
l’usignolo
 
è stato qui un usignolo. non avrebbe dovuto essere qui, ma era qui. e ha cantato tanto. io facevo il mio piccolo canto silenzioso e lui il suo. chissà per chi cantava, forse solo per la dolcezza di cantare. senza scopo, senza vittoria. con la vita all’altezza del suo canto.
 
è così, cara Alba, io cerco che la vita sia all’altezza del canto. è questa la sventura e questo è il bene.
 
io ti ho tutta vestita del mio canto d’amore
io ti ho tutta innalzata, come erba di marzo che buca
la terra dell’inverno, come il raglio di un’asina tra i cardi
lanaioli, la barra alare gialla
degli uccelli del cielo. la tua vita
ha risposto. il tuo corpo
ha risposto
al mio canto. poi, è tornato nel limite. ma l’usignolo, fuori
tempo e fuori dalla terra
calda d’Africa, qui, dal cuore dell’inverno occidentale
 
canta, continua, canta
 
4.1.14

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