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Borghi Claudio (9.15)

 Claudio BORGHI, La trama vivente
“Poesia” n. 307, settembre 2015

Il mondo che ricorda Claudio Borghi è un mondo primario, un’unità originaria che si vede continuamente, dolorosamente frammentata. Esiste una fusione, amniotica o divina. O meglio, preesisteva. E l’esistere, con la propria multiformità, con la sequenza pur gioiosa delle nascite: divide. Diabolicamente, nel senso etimologico.

La silloge comincia con una scena artica e continua con la serie di monadi animali, sguardi animali e feritoie e finestre dalle quali “l’esistere sporge il suo desiderio spaventato di sfociare nell’essere” e pure l’animale a sangue freddo, la lucertola immobile sul tronco, nella sua fissità rettiliana, è “incapace di liberarsi dalla necessità del suo esser viva”. La serie delle monadi fa riferimento a unità chiuse in sé, che rappresentano frattura e non imitazione della forma prima. Alla quale però tutto tende.

Così il gatto, che tende il suo agguato materiale alla mosca, dichiara il fondersi delle creature, che si sgretoleranno una nell’altra. Così l’ipotesi intuitiva dell’indifferenziato fiore dietro ciascuna specifica forma, colore e profumo di fiore.

Borghi osserva con malinconia, eppure con la gioia di vedere la bellezza del mondo, il risultato di bellezza del mondo frammentato, fatto, fratto, creato, formato dopo la scissione della cosa originaria. Che ricordiamo tutti, con maggiore o minore nostalgia: nella silloge stessa di Borghi (piccola parte di un’opera estesa), gli stati d’animo alternano il noto sentimento dolente di essere invischiati nella trappola formale – e ammirazione e canto per il creato, individuato nella bellezza primordiale delle rose, che ri-suscitano lo stupore originario.  

Allora, l’uomo adulto e scrivente rivede sé bambino, fuso dopo una corsa nell’erba al suo piccolo cane, le molecole umane e canine mescolate nello sguardo amoroso che le creature si sono scambiate. Ma è soltanto memoria, mente, pensiero: il tempo vivo dell’infanzia è perduto. Tempo nel quale il tempo non esiste, perché i bambini vivono un eterno presente, ricordano che il tempo è solo una formalità, un’illusione. Sono ancora vicini alla fonte, alla casualità d’essere nati, d’essere corpo.

L’esperienza di una fusione originaria è stata possibile qui, sulla terra, durante il tempo atemporale – e dunque vero – dell’infanzia. Poi, siamo in esilio: la cosa nuda è andata smorendo, sono venuti in luce i particolari, gli istanti, le perdite e la nostalgia, la linea retta delle cronologie, i meri fatti umani.

Siamo caduti nello spazio e nel tempo. Come scriveva Marina Cvetaeva, a consolare il figlio d’essere nato: “Vieni vicino al mio petto, / più stretto:/ nascere, piccolo, è cadere nel tempo… Ma ti alzerai! Ciò che chiamano morte / è cadere – nell’ alto… La morte, bambino, è ritorno”.

Ma, nel frattempo che chiamiamo vita, come sistemare il nostro sguardo adulto di fronte al mondo delle cose scisse? Borghi gira intorno il pensiero cercando bagliori dell’unità perduta, intuizioni del bene originario, di quando tutto e tutti fummo uno. Probabilmente senza tempo e luogo. Probabilmente senza pensiero. Ché il pensiero è il danno che ci è dato. E che noi agiamo quotidianamente. Poi, per lampi, visioni, intuizioni: ricordiamo. Per momenti improvvisi, non per domande: sappiamo. Spesso chiamiamo Dio questa sapienza, questa memoria, la luce bianca o d’oro che percepiamo. Ma è una convenzione, è per rifarci a una storia nota, già scritta da altri, che ci rende ragione del nostro dolore, della triste caduta nella forma, alla quale possiamo dare il nome di solitudine.

Riconoscerci come individui significa sopportare di essere soli.

Borghi racconta dunque la perdita di un “divino” tempo infantile, sembra affermare che l’intera materia aneli a ritornare in quella luce viva, che era data e ormai solo a tratti l’intelligenza coglie, della quale si può avere soltanto una provvisoria visione. Essa svela un’origine prenatale. E insieme una meta, se Cvetaeva ha ragione.

Il poeta si sporge su questo vuoto fuori dal tempo, nell’anonimo pulsare di un cuore divino. Comprende la cosa nuda come la comprende G.H. in La passione secondo G.H. di Clarice Lispector. La cosa priva di sé. La percezione del neutro. Lispector scavalca l’ovvio, anche del sublime letterario e religioso: la sua G.H. seconda un progressivo tentare con la mente l’inosabile, fino a sentire la visione fisica del divino nel triviale e nell’orroroso: lo schiacciamento di una blatta che cola sulla terra la materia bianca del proprio sangue finisce per manifestarle la neutralità di Dio. Che non è indifferenza, ma accettazione: totale. Assoluta mancanza di resistenza. Evidenza. Pace finale. Anzi: infinita.

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