Nuovi Argomenti (8.9.15) autocommento a “Serie fossile”
“Nuovi Argomenti” I poeti leggono se stessi /10
© – fossile (da “Serie fossile”)
metti una mano qui come una benda bianca, chiudimi gli occhi,
colma la soglia di benedizioni, dopo che
sei passata attraverso
l’oro verde dell’iride
come un’ape regale
e – pagliuzza
su pagliuzza,
d’oro e grano trebbiato –
hai fatto di me
il tuo favo di luce
una costellazione di api ruota sul tiglio
con saggezza inumana, un vorticare di intelligenze non si stacca
dall’albero del miele
– sarebbe riduttivo dire amore
questa necessità della natura –
mentre un vuoto anteriore rimargina
tra fiore e fiore senza lasciare traccia:
usa la bocca, sfilami dal cuore
il pungiglione d’oro,
la memoria di un lampo che ha bruciato la mia forma umana
in una qualche preistoria
dove i pazzi accarezzano le pietre come fossero teste di bambini:
avvicinati, come la prima
tra le cose perdute
e quel volto si leva dalla pietra per sorridere ancora
24.5.13
Io scrivo per dire qualcosa a qualcuno, che talvolta è morto o, sebbene si mantenga gioiosamente in vita, non mi leggerà. E finisco per dirla a chiunque mi legga. Messaggi in bottiglia. Questo il primo statuto della poesia.
In questo momento, più che da un unico testo, mi sento rappresentata dall’intera Serie fossile, libro con il quale – come ho scritto rispondendo a Maiko Favaro per “Soglie”, quadrimestrale di poesia e critica letteraria – “ho voluto contraddire quanto esplorato negli ultimi libri, ovvero la disillusa inclinazione alla “divinocadaverica” autosufficienza del volo mistico. Serie fossile è un’affermazione di libertà e di coraggio, un continuo plurale con la creatura amata, il cui volto “così solo / all’interno, riassume / il genere umano” – e dunque induce a un serio contatto con il mondo e le sue creature, da quelle alate a quelle minerali. L’io vi è implicato profondamente: tanto più, fuso al mondo, sparisce, tanto più esiste.
In Serie fossile ho voluto sostenere l’apparizione della grazia. Con il verbo “sostenere” intendo anche la fatica fisica di sopportare la tensione elettrica di una rivoluzione interiore. E, con la parola “grazia”, intendo anche il sentimento di venire graziati dal peso dell’esperienza, che progressivamente uccide la fiducia originaria e ci rende ogni giorno più soli. Infatti, perché la grazia ci attraversi, dobbiamo essere già morti una volta, aver perso tesori, regni e speranze, dobbiamo insomma essere impreparati. L’incontro dev’essere incondizionato, deve trovarci indifesi. Solo allora, se colti di sorpresa, possiamo tornare idioti, meravigliosamente bambini. Presi da assoluto stupore. Allora un volto che ci irradia di fronte ci disargina, inverte i vettori dello spaziotempo e ci proietta indietro lungo la traiettoria della nostra vita, ripulisce la nostra biografia dalle scorie di metallo pesante del disamore, dai doni rifiutati, dalle domande rimaste senza risposta, dagli abbracci vuoti.
Si rischia tutto. Pronti ad accettare che potrebbe essere l’ultima illusione.
Se il disastro dell’abbandono avverrà ancora, avremo almeno contraddetto il gesto della malinconia e del disincanto che sulla terra viene detto maturità, avremo scavalcato, per un tratto, il limite di quella che troppo superficialmente viene detta “realtà”. ”
Da quest’ultima raccolta scelgo © – fossile, che ne è la poesia-madre, perché mi permette di svolgere alcune considerazioni sull’amore e sugli effetti del sentimento amoroso nella natura lirica. Non a caso ho appena riletto il De profundis di Oscar Wilde, provandone insieme una viva irritazione e una certa compassionevole adesione. Wilde è intelligente e ironico, ben consapevole di aver trasfigurato la persona dell’amato Bosie, ben consapevole di nutrire il nobilissimo ma cieco bisogno d’amare, a prescindere dal proprio oggetto d’amore, che in effetti incomprensibilmente disprezza.
L’inclinazione di una natura lirica a fissarsi su un oggetto e a fissargli sulle spalle ali che magari non gli appartengono, è pericolosissima, per chi prova l’amore e ancor più per chi ne è oggetto. L’amato si sente caricato di un’aspettativa disumana. La sua reazione è rimarcare il limite della propria pur degna umanità, riaffermare con dolorosa esasperazione la propria immagine mondana, l’autonomia della propria persona reale dalla visione dell’amante. L’amato non si sente amato nel suo limite naturale – e dunque si ribella, con diritto, causando un dolore più o meno violento all’amante: per narrare di sé, attraverso il dolore che infligge. Per districarsi dall’impasto, altrettanto violento, della visione.
Il dolore che l’amato infligge è un disperato dire, colpendo l’amante nella carne e nella carne sensibile della sua figura umana e della sua arte (“Quando non ti trovi sul tuo piedistallo non sei interessante”: parole durissime, che Bosie scrive a Oscar): “io non sono come mi vedi tu”, ovvero: “allontanati, perché non mi ami, tu ami qualcuno che non sono io”. L’innamorato Wilde viene accusato dall’amato di arroganza sentimentale, attraverso l’ostentazione di un distacco crudele.
Ma l’amante continua ad amarlo. Perché? E allora, siamo giusti anche con i poeti.
Qualunque innamorato crede e sente profondamente di aver còlto la vera natura dell’essere amato – e, inoltre, di essere il solo ad avere la facoltà di risvegliarla, attraverso la comunicazione profonda, attenta e paziente, che solo un grande amore rende possibile. Egli sa di essere il tramite per riportare al mondo la parte più vera dell’amato, la sua natura originaria o, meglio ancora, la sua naturale predisposizione alla “gioia originaria”.
Di quale gioia si tratta, se non di quella edenica e rischiosissima della fusione? Di sé con l’altro e di questa luminosa, densa e potentissima unità duale con la natura intera, pure nelle meccaniche declinazioni dell’intelligenza umana.
Quanti esseri umani sanno reggere questa apparente perdita di sé nel corpo planetario apparentemente esterno a sé?
La saggezza profonda di chi ama ha fiducia nella possibilità di scindere a piacere questa fusione, per ritornare singoli individui che fanno “funzionare il mondo”. Per poi di nuovo tornare ad alimentarsi alla indispensabile fonte amorosa. Sempre con la coscienza benedicente di possedere una fonte di alimentazione continua nel sentimento dell’altro. Tutto questo è profondamente vero. Tutto questo è profondamente umano. Solo, è l’umano alla massima potenza.
Per la natura lirica, la visione della potenzialità dell’amato e della splendida officina di bene mondano che insieme diventano gli amanti, è più vera del vero. E questo è il limite paradossale: cercare “che la vita sia all’altezza del canto. è questa la sventura e questo è il bene”, come ho scritto altrove in Serie fossile. Cercare che l’amato sia costantemente all’altezza del suo massimo sé. Una gran fatica. Il poeta è impietoso con l’amato come lo è con sé.
Il suo amore si deve modulare sulla terra. Oppure, è insostenibile.
Quando il poeta parla alla creatura amata, si rivolge all’intravista potenzialità di quella. Più raramente, all’atto, alla declinazione concreta, all’attualità della creatura storica e biografica che ha di fronte. Il suo discorso, come quello di tutti gli innamorati (ma di più, a causa della sua coabitazione costante col mondo delle idee e degli incandescenti materiali sentimentali), viene lanciato in una altezza-profondità atemporale. Egli parla all’origine e alla meta insieme, parla al nucleo atemporale dell’amato, al suo essere fuori dallo spazio e dal tempo. Però noi siamo fatti di cronologia e biografia, delle minuzie che scandiscono la nostra quotidianità, dei risultati delle micro e macro scelte che abbiamo compiuto, magari per guarirci con la vita, magari in tempi di disillusione che precedevano l’avvento dirompente dell’amore. E la nostra realtà ci condiziona.
L’errore più frequente, in chi ama, è sottovalutare la realtà, credere che la forza propulsiva del sentimento scavalcherà ogni ostacolo (concreto o psicologico) in volata, ci renderà leggeri e subitaneamente noi stessi. Abbiamo visto la luce, non possiamo più vivere in penombra. Questo pensa l’amore. Ma la penombra è anche riposante, non ustiona. Testi come Serie fossile lo insegnano. Testi come Jucci di Franco Buffoni lo insegnano. L’amore è un’occasione, una rivoluzione radicale di ogni pregressa abitudine e di ogni difesa, che non tutti siamo disposti a vivere. È un diritto. Velocità di fuga, s’intitola il romanzo di Biancamaria Frabotta. È un diritto.
Ma è altrettanto un diritto coltivare all’interno di noi qualsiasi torrenziale illusione: non sempre costruiamo paradisi al solo fine di distruggerli.
Dunque, desidero estendere il discorso oltre il discorso amoroso, perché la poesia è un modo di vivere nel mondo e anche il modo di vivere l’amore equivale al modo di vivere, nel rimanente mondo.
Io coltivo con quotidiana dedizione una fiducia ottusa “nella bontà degli uomini e della natura”. È la condizione indispensabile che precede ogni gesto della mia vita. Quello che ho scritto per l’amore, vale anche al di fuori del discorso amoroso, vale per tutte le creature umane e per il mondo nella sua struttura ontologica: parlare al nucleo atemporale di noi creature umane. Parlare al mondo come dovrebbe essere. Non ciechi alle persone e alle cose come sono, ma rivolgendosi con uno slancio instancabile all’utopia del mondo e delle sue creature, di noi stessi per primi.
Dunque, si deve essere guerrieri, per resistere in questa che possiamo definire “visione poetica” del mondo – che è inclinazione, naturale prima e volontaria poi, alla bellezza delle cose, decisione di credere e volere che il mondo sia come dovrebbe essere. Non perché non vediamo la realtà, ma perché ne vediamo il limite – e non ci rassegniamo ad accettarlo. Il poeta, per come io lo intendo, è un partigiano, un combattente, un resistente, un consapevole donchisciotte. Di certo, è posto fuori dalla retorica del poeta-fanciullino che schianta nei pozzi lodando i pozzi. Egli è di certo non violento, mai mite. Lo sguardo che posa sulla sua specie è uno sguardo fiero. Non facile, ma fiero. Fortemente implicato con la realtà che lo circonda. Perché la poesia non può che essere un canale aperto tra pubblico e privato, ovvero l’utilizzo, anche impudico, di quanto accade nella vita di chi scrive, al fine della comprensione della storia: quella macroscopica e quella personale, di altri.
La mia meta più vera è riportare in pagina la gioia o, perlomeno (date non auspicabili sventurate vicende, personali o collettive), ogni dolore trasformato in gioia. Quanto meno in bellezza. Gioia, bellezza. Parole ridicole, abusate. Ecco la sfida. Ecco il rinnovamento che ci viene chiesto. Il dovere di sostenere il rischio del ridicolo della retorica, ovvero rinnovare la retorica che fonda le relazioni tra esseri umani. Poiché – ne sono convinta – siamo creature infinitamente semplici.
Il nostro grado di semplicità tende a infinito.
Questa cosa che, spesso sovrappensiero, chiamiamo realtà non basta a nessuno, non soltanto ai poeti.
Se la realtà ci bastasse, non esisterebbe l’arte. E non esisterebbe chi ne gode. Se la realtà ci bastasse, non esisterebbero le utopie, neanche quelle amorose.
Ma l’utopia è feroce. La meta toglie l’aria, si respira a fatica per quanto è alta. È, appunto, cercare che “la vita sia all’altezza del canto”. Una cosa possibile a bagliori. Ma è in memoria e in cerca di quei bagliori d’assoluto – ottenuti grazie alla generosità amorosa di creature che non possiamo smettere di ringraziare, per l’apparire semplice della bellezza del mondo ai nostri occhi non più introvertiti – che un poeta vive, che io: vivo.
Roma, 30.5.2015
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