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Pinzuti Eleonora (10.15)

 Eleonora PINZUTI, Adfectatio (il ritorno del desiderio)
“Poesia” n. 308, ottobre 2015

Adfectatio è il canto di un amore da vivere “fuori da tutto questo”, chissà se rimandato o in nessun dove, perché pensato fuori dalla “vita reale”.  L’amata viene collocata fra gli studi di un’antichità grecolatina, che riverbera su di lei l’effige di una dea in moto attraverso una Firenze irreale, dechirichiana, mero fondale di una teoria di incontri e agguati, per dirla con l’ultimo De Angelis.

Leggiamo, in queste pagine, le contraddizioni interne a un amore che un’amata si nega di vivere. La femmina amata dalla femmina scrivente è la preda che fugge dopo aver disseminato il cammino di esche e di molta vitalità del pensiero, nota sublimazione di Eros. Leggiamo, in queste pagine, uno squilibrio agito attraverso la sottrazione. Si dice che in amor vince chi fugge. Dovremmo meglio dire che in amore chi fugge uccide l’altro, perché finisce per sostituire all’essere stesso dell’amante la figura vivente dell’assenza. Di sé e dell’altro. Un barthesiano dove lei non è, questa volta non comandato dalla morte, bensì dalla premorte che è il rifiuto dell’amore. La sua assenza immortalmente viva è il solo nutrimento di una gioia mancata, di un’amara promessa non mantenuta. Con la propria vita. Incontriamo ben presto, tra queste righe, l’aprile maiuscolo dell’attesa, il mese crudele di Eliot, dove tutto si sveglia tranne i morti – e il futuro aprile della pasoliniana supplica alla madre: entrambe evocazioni quanto mai appropriate al contesto amoroso di Pinzuti, dove il raccontare (la letteratura in sé), come scrive lucidamente la stessa autrice, sarebbero forse un soddisfacimento succedaneo del desiderio. Eppure, l’amante-scrivente conserva una fiducia originaria nell’“onestà assoluta” di colei che ama. Impossibile pensarle addosso cattivi pensieri: a lei si attribuiscono, pur con ironia consapevole e amara, le caratteristiche di un’obliqua deità. Incluso il dubbio intorno alla sua esistenza corporale. Solo la sua figura sognata non porta dolore, ma “una felicità assolata, cieca, / rotonda e levigata come un frutto”, perché, con l’intelligenza dell’amore, noi raggiungiamo la libertà assoluta della figura amata, dietro occhiali di tartaruga, tailleur e camicette – la libertà davanti alla quale si aprono la metamorfosi e la voragine del desiderio. La silloge di Pinzuti tratta fin dal titolo la rinascita del desiderio – che però viene trattenuto nei confini posti dall’altro. Diremmo, forse meglio: esacerbato dai confini. Si sente ovunque rimbombare al chiuso dell’anima, in quel “non dico, e non professo”, il dolore profondo dell’amore muto, reso indicibile da un pur ambiguo rifiuto. Si tratta, infatti, di un amore senza guerra e senza sangue, vissuto nel silenzio, nell’allusione, nella soavità, quasi, di uno strazio inapparente. Ogni briciola di bene (la visione, che quasi basta a se stessa, del corpo inaccessibile) è stata raccolta, non c’è altra feccia che quella del distacco, del “nulla” che succede all’ambiguità di una promessa. La conclusione stessa della teoria degli incontri scivola in una pace mestamente erotica, dal sapore fruttato.

L’immagine della donna amata qui non si vede compiuta e carnale, ne viene piuttosto decantata una bellezza astorica e quasi impersonale, come se il suo corpo irradiasse di luce insostenibile, come se chi scrive venisse sopraffatta da un incantesimo, da una balugine chiara dalla quale trasaliscono i dettagli incorporei: l’anello, il rimmel, il bottone. Pinzuti svela quasi solo gli accessori del corpo amato. Ma dov’è il corpo, che colore ha il suo sguardo? Se ne sente la voce, l’onestà della voce. Di lei sappiamo che possiede una figura “filiforme” e un seno piccolo. Ma queste informazioni provengono dal sogno, ovvero dall’interno della scrivente stessa. Dell’altra, viva e vera, si dà solo una mano, una “ruga che tiene le labbra” (era amara o, piuttosto, la traccia di un sorriso?). Il corpo amato è privo di aggettivi: quasi invisibile, perché invivibile. Solo la fronte è, infatti, “corrotta / dal dubbio” e i due soli aggettivi riferiti al profilo sono traslati in attributi del marmo, del biancore del marmo “lunense o pentelico”.

Perché l’altra è “incognita, indifferente”. Parla d’altro. Inaccessibile dunque anche allo sguardo, lontana tanto da non darsi nella sua propria carne. Importa che si tratti di amore di donna per donna. Perché questa specificità cambia la qualità del dolore, la difficoltà e il credito sono maggiori, la qualità della dedica è più radicale, più ancestrale e destabilizzante. Ma ogni amore negato o rinnegato fa quell’”a presto” che diventa mai più, poi la cancellatura di chi rinuncia e non permette allo sguardo sereno dell’amore sereno di scendere nel mondo. È la felicità amorosa che ci permette di attingere all’altro. Allora l’altro diventa vero sangue – e ci invera. Altrimenti, noi pure siamo fatti “di nulla, cera molle che ti guarda”. Cera e morsa. Altrimenti, non esiste che questo anelare a una “cosa” che non esiste. Fin che l’amante depone le armi e consuma anche il proprio congedo “come un soldato romano, con misura”, nell’ultimo esercizio di contenimento di uno smisurato amore.

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