Nuovi Argomenti n. 72 (10-12.15)
Grappoli di pere con piccoli spacchi
Penso che con questo magnifico sole freddo l’unica cosa ragionevole da fare sia argomentare intorno a piccole pere verdi dopo averne osservato nei giorni lo strutturarsi e il gonfiarsi in forme che si presentano come di consueto tondeggianti in basso (che è verso la gravità della terra) e allungate verso la cima (che è dove pendiamo dal ramo).
Ogni piccolo fiore, se non cade per la stanchezza del ramo – che riesce a portare a compimento solo i più robusti tra i propri frutti – e se non viene trascinato dal vento sulla terra – che origina una vita simile a se stessa solo dalla matrice dei semi, mentre dall’altra materia organica produce differenti specie di larve – asciuga lentamente e si traduce in frutto.
La buccia – fredda,
liscia e lucente – a volte cede alla secchezza dell’aria invernale e si forma uno spacco – i bordi del quale
anneriscono con il trascorrere dei giorni e delle notti a causa dell’ossidamento del ferro contenuto nella polpa.
Osservando nella ferita
si rivela il vivo della polpa, granulare e bianca come la traccia dei morti.
Nella pera c’è un cuore molto bianco che in realtà rimanda alla nostra morte
e allo splendore (conseguenza del male che lo precedette e che è anche già stato
lavorato
– ma tu sei giovane e hai ancora tempo da perdere col dolore
– oh, vorrei anch’io subire ancora l’offesa della giovinezza!)
Intorno a questa traccia c’è la ruggine, che possiamo considerare come la parte del corpo vivo che ha reagito all’aria, come la scia di una emorragia nel passaggio che avviene tra regno (dei vivi) e regno (dei morti).
Raramente infatti passiamo intatti dall’essere una pera liscia e impassibile a essere una pera parlante cioè dotata di ferita aperta.
Tutto quello che possiamo immaginare avvenga al di là dei sensi nella formazione della pera, esorta a una serena pulizia dello sguardo, esorta a eliminare il superfluo e le scorie mentre si forma l’agglomerato dolce che diciamo frutto.
Ma alle volte, come vale per tutti gli altri frutti, avviene che il biancore sia insidiato dalla fame di un essere vivente. E la pera serenamente ospita il suo ospite – che si nutre di lei e della sua bianca morte – così com’è, illuminata dalla gioia del ridicolo.
Roma, 9 novembre 2009
Poniamo il caso della gratitudine
Chiamiamo A il donatore.
Chiamiamo B il destinatario del dono.
A cammina verso la casa di B portando in dono a B una cosa severa, concentrica e importante: qualcosa
di equivalente a una possibilità di dilatarsi, a un liquido per la compassione
e per ciò A sente il petto come una nave ferma nella luce.
A prevede la gioia che darà a B, anticipa l’abbraccio che solleverà ciascuno dei due amici più in alto di se stesso quando è solo.
A si avvicina alla casa di B e sorride da solo.
A non sa che nella bocca di B si è formata una sacca di silenzio, dura come la capsula di un dente, infetta come la sua inattesa
suppurazione. Niente ha ancora guarito quel male. Non i ragionamenti sulle opportunità. Non l’amore che, dopo, è venuto a salvare: se l’amore non salva e non guarisce, se l’amore può solo indicare
la direzione. Ora
o mai più: dove puntava
la scaglia d’oro dell’unica freccia. La tua vita è quello che mi hai fatto. Lo splendente disastro
che hai fatto
di me. Un follicolo inerte
che ha manifestato il suo sorriso
una volta. All’insaputa di A nella bocca di B si nasconde una infermità: sulle salivari
di B preme una ghiandola di fallimento
la cova velenosa di un ascesso.
A non sa che il cuore di B è una bilancia e che B ha mandato a memoria il minuzioso elenco degli oggetti dati. Tutto il cuore di B è in abbandono. Questo è senza rimedio. Questo fossile nel mio petto sanguina
le sue pareti colano rimpianto. Il bene che mi porti è solo eco
del mio amore perduto. Io sono della specie
che non dimentica – dunque
perde natura. A non sa che B è incapace di privarsi di qualcosa e poi dimenticare, di trasformare tutta la mancanza in combustione.
Dunque B non riconosce la gratuità del dono e nel dono di A legge una inumana perturbazione
e una cruda, una acidula affermazione di potere
da parte di A. B intravede l’aguzzo di una chiglia che separa la calma del mare. Ci è voluto
tutto il mare, per coprire la solitudine di B. Così, avviene che:
1. B allontani con rancore A dalla propria casa, B si disfi con violento disprezzo di A, che lo ama;
dopo avere smantellato l’ingombro del dono di A, B si impegni nel denigrare A per affermare la propria libertà dal bisogno che il dono di A gli ha rivelato.
A ha involontariamente dimostrato di sapere cose sul passato di B che B non vorrà conoscere
mai più. B sa che adesso è tardi per l’amore. B rimarrà fedele alla siccità. B ha posato una copertura nera senza fiamme dove stava
tutta la fioritura.
Il silenzio del cuore rassicura B. Il nero gotico delle albe, la spelonca vuota, il muto
concerto dei morti. Il vuoto è privo di contrasto: una completa assenza di contrasto
circola nella linfa dei fantasmi. Il fantasma ha espressioni circolari.
Il fantasma è soggetto come un arbusto di dolore al sole incostante del capriccio di B.
B non mette nella bocca del fantasma il tralcio aguzzo della parola: l’esca viva.
La parola farebbe sanguinare anche il fantasma.
B mette nella bocca del fantasma una ruota bianca di silenzio.
A vedeva i fantasmi di B stretti e muti sul cuore di Buio.
Uno scenario esangue.
A è composto di fango e di pastura. A è del tutto
compromesso con la vita. Il suo cuore è un fattore algebrico sanguinante. Rosso come un’appoggiatura patetica. Ogni vita lo culla e lo tradisce. A prova rabbia, umiliazione, gioia e spavento. Canta, piange, è soprattutto nascente. Germinativo.
Amore porta in dono Amore. Amore
porta nudità
trasparenza e umiltà di Amore. Niente altro.
Da principio Buio ammirava il perpetuo devolversi di Amore. Prima che la moltiplicazione di Amore cominciasse a manifestare la sottrazione di Buio.
Scacciando Amore con malanimo Buio richiude la crepa, asciuga la paurosa infiltrazione del sangue, quel profumo di nettare che piegherebbe il capo sulla terra e piegherebbe le ginocchia
nell’odore dei tigli, riconferma un’avara superiorità sul proprio deserto:
scempio, se vogliamo chiamarlo col suo nome. Buio non desidera desiderare. Buio non intende essere turbato
dal vano impulso alla generazione. Buio, dopo quella notte
di impassibili mantici di sangue rovesciati
a sfiatare nel buio
esoterico dell’isola, dice a se stesso che a generare sono buoni tutti
i pedissequi e gli inetti, triste animule prive
di libertà e coraggio, spiriti facili e senza spessori
che si tirano dietro il mondo
secondo la legge
di attrazione dell’ovvio. Giogo della natura. Niente di più insipiente.
Buio si ritiene molto esotico. Buio dice che solo Buio è veramente libero. A questo punto A dovrebbe morsicare B con sapido trasporto
e mostrargli il sedere. Ma qui si vuole dimostrare
come perdonare una ingratitudine.
Sembra niente ricevere un dono ed esserne grati. La vita, per dire. E invece. Così avviene che:
2. Spaccato il primo guscio di dolore
tutta la cera del cuore di A venga accesa da una compassione per il cuore di B, così privo di questa compresenza ronzante e buona
di fiori e api, della plastica altezza
della fiducia. A piange per il petto di B che ospita un sordo
magma – e così
definitivamente solo. Dunque:
1. A non ha smesso di amare B. Eppure
2. B non smetterà di essere solo.
Buio ha appena richiuso la porta alle spalle di Amore e per un breve istante dice questo. Poi dimentica.
Detto di Buio:
Amore, se spacchi il mio cuore con il tuo dono intravedi le tracce
della vita che lo attraversava. Questo è senza rimedio. Via da me questo scempio! Vattene, lasciami rimarginare: questo fossile sanguina
nel mio petto – tutto il costato cola dall’interno
il suo rimorso – stalattiti di lacrime ghiacciate
da quell’ultima notte di modestia, quando ero
ancora così docile
devoto
e naturale da ricevere tutti i tuoi baci
come una logica consolazione. Con quale senso di opportunità e di cosa ben fatta io ricevevo
in tutto il corpo la consolazione dei tuoi baci. Allontana da me
il graffito di bestia del tuo nome: l’incisione che sgocciola
sul piatto
un tatuaggio di diavoli e di angeli
compenetrati. Allontana da me!
questa incoerente liquefazione, questa tardiva attesa, questa impressione di meritare ancora
la feroce bellezza della vita: disattenta
e incostante. Lo vedi: il risultato di ogni cosa
è che muore. Solo il lutto è rassicurante
e perfetto. Divino. Solo il lutto
è immutabile e fedele. Tutto il bene che porti è buia eco
del bene perduto. Disamorata eco. Niente regge il confronto con il morto.
Il Dio morto, il Dio vero, il Dio divino, il più Dio
di te, Eros, indecoroso caprone! Mendicante! Sei un’infelice emorragia di nuvole, il groviglio di un parto di bestia
che sfonda gli sterpi. Membra insolenti, zampe che affondano in quote di fango, striscia di sangue
sulla pelliccia, versamento di organi vivi
dall’interno del corpo: fertilità che prova
la prevaricazione di una specie dannata. Sei l’indugio che non permette al morto di morire, il picco in basso della sua idiozia. E quello urla e non ha più giustizia. Non riconosce il ferro della legge. Stacca! dalla lingua del morto il residuo fetale
della combustione di un melo
che fu nutriente. La mia lingua era tutta fiammeggiante. Stupido, ridicolo, languido
amore: tutto tremante, tutto sospiroso, tutto illuso di essere vivo. Vattene, lasciami rimarginare! Chiudi la terra! Chiudi l’imboccatura alle tue spalle. Mondami! Tutte le rose hanno esasperato il loro male
sul mio corpo soggetto
alla rosa letale
del tempo. Vattene!
e io dimentico. Io non sono più vivo.
Roma, 1-3 giugno 2011
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