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Soglie – anno XVII n. 2 (8.15)

in Soglie rivista quadrimestrale di poesia e critica letteraria Anno XVII, n. 2 – Agosto 2015

Da La vita chiara (Transeuropa, 2011) a Serie fossile (Crocetti, 2015), fra aerei aneliti e terrestri turbamenti. Conversazione con Maria Grazia Calandrone

 Maiko Favaro

Lei, Maria Grazia Calandrone, è autrice dal percorso particolarmente ricco, vario e complesso. Ha pubblicato ben otto raccolte poetiche, da quella d’esordio Pietra di paragone (Tracce, 1998) fino alla recentissima Serie fossile (Crocetti, 2015), senza dimenticare la prosa de L’infinito mélo: pseudoromanzo (Sossella, 2011). Molte altre informazioni su di lei e sulla sua opera si possono trovare nel fornitissimo sito <www.mariagraziacalandrone.it>. Con questa conversazione, vorrei far emergere alcuni degli aspetti più caratterizzanti del suo mondo poetico, concentrando l’attenzione in particolare sulla fase più recente della sua produzione, nel passaggio che dalla penultima raccolta, La vita chiara (Transeuropa, 2011), conduce a Serie fossile.

Soffermiamoci pertanto, innanzitutto, su La vita chiara. Tramite tale raccolta, lei – come afferma esplicitamente su LPLC (<http://www.leparoleelecose.it/?p=2533#comments>) – si pone l’obiettivo di «riprodurre il disordine della natura abbandonata, solo tradotta e catalogata nei suoi 4 elementi. Verso l’aria». Afferma anche che «nessuna altezza è veramente altezza se non prende lo slancio da terra. L’aria in sé è troppo inafferrabile». E, difatti, la sezione dedicata all’Aria è posta proprio alla conclusione del libro: tappa finale di un percorso che aveva preso avvio dall’Acqua, elemento indissolubilmente legato al suicidio della madre (il riferimento è chiaro fin dalla prima poesia della sezione, Invocazione per la Persefone marina). Osservando la struttura, però, ci si potrebbe chiedere: come mai, in questo percorso ascensionale fino all’Aria, la sezione sul Fuoco precede quella sulla Terra? Dalla filosofia aristotelica, infatti, siamo abituati a pensare il fuoco come l’elemento più prossimo all’aria, poiché l’acqua e la terra tendono naturalmente verso il basso, mentre il fuoco e l’aria verso l’alto.

Nel (ri)produrre disordine ho voluto concedermi l’arroganza di disordinare anche la successione “logica” del sistema degli elementi! E questa è la superficie ironica della risposta. Un gradino più a fondo: il fuoco: sì, è il quarto elemento dinamico, apparentemente il più diretto a innalzarsi – ma i suoi effetti, le ceneri, sono palta terrestre e, diversamente dalla terra, infeconda. Terra bruciata, come si dice, dove non cresce altro che la piana evidenza della fine – dunque una terra doppiamente terra. Mi è sembrato anche più onesto incastonare il fuoco in questa sua dimensione pre-terrestre perché nel libro viene detto il fuoco metaforico dell’amore umano. Anche l’aria che tira alla fine è un’arietta amorosa – ma di un amore tutto interno e silenzioso e casto, rivolto come quello di Teresa d’Avila a un fantasma divino – o a una memoria, come fu sempre quello di Chopin, un amore alla Emily Dickinson. Anche graficamente: la sezione finale sopporta molto bianco, mentre quella terrestre colma la pagina con uno spargimento grande di zolle verbali.

Sempre in merito alla ‘tensione’ tra terra e aria, mi venivano in mente alcune parole di Milo De Angelis. Nel sesto numero della rivista «Niebo» (parola che in polacco, è interessante ricordarlo, significa ‘cielo’), egli affermava: «il cielo non è la cupola della terra, ma è ciò che la terra non può sopportare e allontana da sé». Cosa risponderebbe a questa affermazione? 

Che Milo De Angelis parla perfettamente da poeta. La sua affermazione è colma della suggestione del limite, che è lo strazio e insieme il fascino più profondo dei nostri amori e della nostra stessa vita. Nessun essere umano è pronto per stare vicino ai suoi dei. Gli angeli sono terribili, la bellezza è terribile: la bellezza degli angeli e degli dei nella sua eternità – ma ancora più terribile è la bellezza nostra, sempre così macchiata dalla sua fine. Dunque niente di meglio che scagliarla lontano, verso l’alto, affinché non ricada come il fuoco, affinché la possiamo solo invocare – darle il nome di dio.

E infatti, dopo che ne La vita chiara si è librata in aria prendendo lo slancio da terra, nella successiva Serie fossile lei torna tuttavia ad indagare con grande compartecipazione emotiva l’imperfetto ma fascinoso mondo terrestre. Già il titolo evoca profondità ctonie ben più di sublimi, rarefatte atmosfere aeree. In un passo significativo, ben evidenziato anche dal particolare lay-out nella successione dei versi, lei scrive: «e impariamo a soccombere / alla materia: questo corpo / – l’effimero, è il miracolo» (in Ɯ – scritto delle tre non solitudini). C’è una certa qual struggente voluttà in tale abbandono alla materia, al transeunte? La forza amorosa che pervade così profondamente questo libro sembra riverberarsi nell’intero mondo naturale, creare legami fra tutte le creature: non a caso, nella poesia (°) – seme, viene richiamata la «foresta dei simboli» di baudelairiana memoria. Nel ‘mondo originario’, ancestrale e gravido di potenzialità cui volge il suo sguardo in Serie fossile, lo slancio è stavolta – anziché verticalmente dalla terra all’aria – proiettato soprattutto in una direzione per così dire ‘orizzontale’ e al tempo stesso avvolgente, in un abbraccio di panteistica ebbrezza?

Sì. Ho voluto contraddire quanto esplorato negli ultimi libri, ovvero la disillusa inclinazione alla “divinocadaverica” autosufficienza del volo mistico. Serie fossile è un’affermazione di libertà e di coraggio, un continuo plurale con la creatura amata, il cui volto “così solo / all’interno, riassume / il genere umano” – e dunque induce a un serio contatto con il mondo e le sue creature, da quelle alate a quelle minerali. L’io vi è implicato profondamente: tanto più, fuso al mondo, sparisce, tanto più esiste.

In Serie fossile ho voluto sostenere l’apparizione della grazia. Con il verbo “sostenere” intendo anche la fatica fisica di sopportare la tensione elettrica di una rivoluzione interiore. E, con la parola grazia, intendo anche il sentimento di venire graziati dal peso dell’esperienza, che progressivamente uccide la fiducia originaria e ci rende ogni giorno più soli. Infatti, perché la grazia ci attraversi, dobbiamo essere già morti una volta, aver perso tesori, regni e speranze, dobbiamo insomma essere impreparati. L’incontro dev’essere incondizionato, deve trovarci indifesi. Solo allora, se colti di sorpresa, possiamo tornare idioti, meravigliosamente bambini. Presi da assoluto stupore. Allora un volto che ci irradia di fronte ci disargina, inverte i vettori dello spaziotempo e ci proietta indietro lungo la traiettoria della nostra vita, ripulisce la nostra biografia dalle scorie di metallo pesante del disamore, dai doni rifiutati, dalle domande rimaste senza risposta, dagli abbracci vuoti.

Si rischia tutto. Pronti ad accettare che potrebbe essere l’ultima illusione.

Se il disastro dell’abbandono avverrà ancora, avremo almeno contraddetto il gesto della malinconia e del disincanto che sulla terra viene detto maturità, avremo scavalcato, per un tratto, il limite di quella che troppo superficialmente viene detta “realtà”.

Questa sua grande attenzione per il mondo fisico si traduce anche in un particolare interesse per la rappresentazione del corpo, spesso smembrato, in un proliferare di sangue, ferite, carni aperte. In un passo de L’infinito mélo, la narratrice (sua alter ego) scrive: «io amo la decomposizione. […] Amo vedere con i miei occhi che il corpo è commovente cosa da nulla», e aggiunge di amare i film di Cronenberg e Balaguero (p. 33). In alcuni memorabili versi della sua poesia sull’11 settembre (in Sulla bocca di tutti, Crocetti, 2010), i corpi vengono immaginati come meri ingombri alla luce: «A ogni cosa caduta / corrisponde una luce, uno spazio / che prima era occupato. Pensa che se tu cadi / fai luce». Nella sua poesia, comunque, i disfacimenti sembrano rimanere in attesa di resurrezioni. Potrebbe illustrare da un punto di vista complessivo il rapporto del suo ‘io’ poetico con il corpo, specialmente in relazione al nostro essere – per citare altri suoi versi – «l’effetto di un contratto / provvisorio tra la materia e il nulla»? Riconosce qualche affinità con la poesia di Laura Pugno, nella quale il corpo è analogamente una presenza assai ricorrente ed è spesso parcellizzato, scomposto in frammenti?

Approfitto di questa sua domanda per emettere una frase parzialmente paradossale: la (mia) poesia è il (mio) corpo – anzi, insieme ai (miei) figli, che per loro fortuna hanno gambe e destino, la poesia è la parte meno mortale del (mio) corpo. La poesia è la traccia di aratro di un gesto che è raccolta e semina contemporaneamente. Raccoglie tutto quanto è stato letto di quanto è stato scritto e lo lancia al futuro, più avanti del corpo di questo (chiunque sia) particolare poeta. Probabilmente la densità dei testi pertiene a questa forma di delirio. Come la macchina è la protesi potenziata della velocità del corpo, la poesia è la dimostrazione – magari ipertrofica come l’amore – della sua anima.

La poesia di Laura Pugno, che amo molto, a differenza della mia pone i corpi come dentro delle teche museali, in una sorta di archeologia fantascientifica che esercita su di me un fascino maggiore. I corpi di Laura sono reperti manifestati in una sorta di esposizione, di esportazione muta. I miei sono invece corpi disordinati, vociferanti – a volte come le icone autoptiche di Gottfried Benn, dalle quali scorre una lacrima fredda; più spesso sono carne martoriata che canta: interminabilmente, irreparabilmente, come gli amanti immaginari distesi in un lavacro di acciaio e argenti.

Ne La vita chiara, colpisce l’attenzione la presenza di ampi Dialoghi con Hafez. È una scelta che a prima vista potrebbe apparire “esotica”, dato che gli splendidi versi del poeta persiano non sono ancora molto conosciuti in Italia, nonostante negli ultimi anni siano apparse alcune traduzioni di sue opere (e lei stessa si è adoperata nella traduzione di questo poeta): egli è forse meglio noto tramite la mediazione del Divan di Goethe. Quali sono i motivi principali che l’hanno indotta a dedicare ampio spazio ad Hafez? Ne L’infinito mélo (p. 20), ricorda pure un altro grande poeta persiano, Nezami. C’è da parte sua anche l’intento di mostrare la possibilità di proficui scambi con la cultura del mondo islamico, in anni in cui la clash of civilizations favorisce la costruzione di muri piuttosto che di ponti (e in tal modo si riallaccerebbe d’altro canto allo spirito cosmopolita di Goethe, con la sua idea di Weltliteratur…)?

Assolutamente sì. Il mio incontro con la poesia persiana è avvenuto a causa di una lunga vicinanza biografica alla cultura partenopea, a sua volta limitrofa a quella araba e orientale. In particolare, le traduzioni di Hafez sono state commissionate – a me e altri poeti come Anedda, Lo Russo, Zuccato – dal poeta e traduttore Domenico Ingenito. L’incontro ha dato frutti insperati perché la semplicità apparente dei testi ha rivelato una sua profonda ossessione simbolica. E questa scoperta, questa contaminazione che agiva in profondità come una specie di ventosa subacquea, ha aperto un occhio interno, una attenzione lineare che ha preparato l’ascensione finale de La vita chiara.

A differenza di Huntington, però, continuo a credere che sia l’economia a muovere i massicci movimenti mondiali – a spingere parte di un mondo spremuto fino al sangue verso il sogno di un mondo parziale, pingue e agiato, per venirne risarcito. Al mio interno, però, vige non l’utopia, ma un sentimento molto marcato di comunità umana, che mi fa apparire le dinamiche dell’economia come un tragico e inutile gioco per adulti, le conseguenze del quale sono ormai sotto gli occhi di tutti. Siamo dei personaggi romeriani, delle specie di bulimici zombi del capitale. Come dimenticare, a questo proposito, le Notti di pace occidentale di Antonella Anedda, dove la nostra poetessa ci mostrava come la nostra pace fosse solo apparente, fosse solo una tregua…

La componente ironica e umoristica è assai rilevante nella sua opera. Il libro in cui essa risalta con più evidenza è probabilmente lo “pseudo-romanzesco” L’infinito mélo, ma anche in Serie fossile emergono momenti di schietta ironia: penso ad esempio alla Petizione per il rilascio dell’alba. Pratica l’ironia come forma di understatement, oppure essa è in un certo qual modo consustanziale alla sua visione del mondo, cioè sente che le proprie idee e scelte non possono essere assolutizzate troppo, perché anche ragioni differenti o persino contrarie reclamano la loro parte di verità?

L’ironia permette ai poeti di rimanere attivi sulla terra. Vie parallele sono la compassione e il disincanto – ma sono territori più accidentati. Diamo per cosa vera che i poeti – quei tre o quattro – abbiano una inclinazione naturale a decifrare l’infinita bellezza del mondo senza trascurarne l’infinito dolore – e a trasformarli in parole che a loro volta mutino detto dolore in detta bellezza. Ebbene, per fare questo, essi sono costretti a stare sotto il cielo con una specie di cinico incanto, perché non sono ciechi e sanno di posare il corpo trasparente di una seconda realtà nel vaso a volte cupo del mondo reale, sanno di essere importanti per lo stato di cose come grilli parlanti (versione appunto ironica della Cassandra) perché sanno ancora distinguere cosa non canta. Il mercato mondiale – come il setting dei sentimenti “adulti” – non è fatto per chi conserva le impressioni originarie della assolutezza e dello stupore. Ai poeti è data una cattiveria intelligente da bambini. Altrimenti, il bene libero e liberatorio di una risata.

Lei è da tempo molto attenta alla diffusione ‘a viva voce’ della propria opera, anche tramite readings che la vedono impegnata in prima persona: val la pena ricordare che L’infinito mélo è accompagnato da un CD in cui lei recita una selezione di suoi testi, e pure per Serie fossile è agevole trovare – anche in rete – varie sue letture di singoli testi. Considerando tale suo interesse per la poesia come performance, viene spontaneo chiedere il suo parere sui festival di letteratura, che stanno proliferando in questi anni seguendo impostazioni tra loro diverse. Nel documentario Senza scrittori, Andrea Cortellessa e Luigi Archibugi si soffermano fra l’altro fra due tipi per molti versi opposti di festival. Del primo tipo, rappresentato dal Festival di Mantova, mostrano come esso richiami un pubblico relativamente ampio ma promuova anche libri discutibili da un punto di vista qualitativo. Il modello opposto è rappresentato da un festival di impostazione ‘paesologica’ (per usare un termine caro ad Arminio), quello della Stazione di Topolò, in cui si respira un senso più intimo ed autentico di ‘fare cultura’, ma al prezzo di evitare la pubblicizzazione da parte dei media e le ampie folle di pubblico. Secondo lei, quali scelte dovrebbero essere prioritarie per un festival letterario? Di quale tipo di festival abbiamo soprattutto bisogno?

Andai alla prima del documentario di Cortellessa e Archibugi. Per tenerci fedeli al bell’assunto iniziale di Landolfi: «non hanno più meta le nostre pigre passeggiate se non la realtà» – che Cortellessa e Archibugi hanno indagato con tanta malinconica ed esatta ironia – direi di fare nostra la realtà dei poeti, quando abbiamo la fortuna di scovarne qualcuno in vita. Facciamoci toccare dal loro sguardo come da una forse immeritata benedizione, riteniamolo prezioso come un quadrifoglio. Così, io credo che nei festival i poeti dovrebbero non solo leggere ma anche parlarci, rispondere alle nostre domande. Non dovremmo trascurare l’occasione di entrare in dialogo con queste creature strane, oblique, talmente sovraesposte e senza pelle da nascondersi, spesso, per non venire troppo attraversate dai destini altrui. Si pensi ad Andrea Zanzotto e alla fortuna di chi lo ha incontrato. Stazione di Topolò pare essere un luogo, simbolico e insieme vero, dove quel loro modo effimero e apparentemente fragile di stare al mondo cala un attimo a terra, giusto il tempo di mostrare la forza midollare delle sue ossa, la radiazione invisibile che radia intorno, additando in silenzio, ma con energia primaria, la miseria di tutte le cose che non sono Etica.

da La vita chiara (transeuropa, 2011)

da CINQUE MADRI

III
Guernica, detriti
 
Il sistema linfatico dei morti sulle rose
le fiamme ancora attorcigliate
alla cinghia dei nervi e volatili eliche
di ciocche: le pose omeriche della materia
semiviva. I sepolti
sopra la terra, se avranno
pietà di noi sembreranno caduti
in un sonno privo di giudizio
come un enorme pasto
di carne umana, sembreranno mischiare con una smarrita
rassegnazione – carne
– sguardi
al fango fumigante di Guernica
abbozzando un sorriso come latte cotto nella polvere, come per dire di una tregua.
                                                                                                        
Rimane nelle fabbriche
da guerra la nostra parte nella
catastrofe, un mondo
non più abituale
che esala i suoi morti
a nostra mortificazione.
 
Siamo fango che dorme, un documento in bianco, tutto il silenzio spinto nell’armatura interna del torace, oggetti
privi
di confine con la terra: qui è perduto il confine
tra corpo e terra.
 
Non io – non ero in pace
con il corpo di terra sollevato
dal battesimo e d’un colpo deposto benché fosse
una cosa che al centro aveva il cuore e il sangue da quel cuore circolava
ancora alla periferia del corpo
di sua madre: tutta lei
è una gora di sangue che crolla
dalla bocca del figlio. Figlio!, il tuo nome
era l’orgoglio della mia bocca, spuntava da solo
dal bianco
degli incisivi, rotolava di sera tra le chiostre
come perle già andate nella pace dell’alba le sue vocali
ché dal primo respiro mattinale
mi cominciava un sorriso
dal petto al pronunciarti.
La bocca spalancata di sua madre
somigliava
al silenzio di un astro.
Questo è quello che avete fatto voi.
 
 
IV
Maria, le apparizioni
 
Io li sogno, mi chiamano, li vedo
che sorridono e dicono vieni
Maria, vieni a prenderci, sento tutto questo movimento di bambini e sto male che invece non sono in casa, li vedo in casa come corde di fuoco con le otturazioni dei morti
nelle coagulazioni del sangue
o mi accarezzano le ciglia
muti, in mancanza di sé come linguaggio.
 
da EXTÁS, quello che resta della voce
(11 lunazioni più una su Teresa d’Avila)
 
4. sei cresciuta in altezza sulla gelata di marzo
 
nessuna cosa mi riguarda
restituisco il mio tessuto umano
la secca bianca delle mani
aperte e quello sbriciolarsi di lince nella radura come si fende una vena e lascia
vaporare il viola
 
addestro
la mia pace alla sella del corpo
– inumazione
verticale
e incudine, staccionata con chiodi
e disciolta
sono tela da sciogliere
residuo povero dell’oro
 
ora la terra profuma ed è calda, cemento
caldo
nutrimento
una larga violenta imperfezione
nero sbocciare segreto di piante segrete
 
rose dormienti come di domenica nell’oro
dell’alba, corpo fatto di fiori
diventati nessuno
 
5.1. in tutta l’opera
 
era un calore lui, ossatura vastissima, area
calpestabile
vento leggero di confine
e solitudine corporale di erbe
 
lei è una singola ombra mortale
carne
precipitata in un’altezza inaccessibile
 
dal suo letto ventate di miele, l’ampia
respirazione dei campi e il levarsi di un bianco
arco sottile – l’ala
della monarca tremolante su macchie di alysso
 
L’arnia del petto piena di richiami.
Il ronzio dell’oro. Il muschio.
E la lavatura. Le mani come stato di zolla stearica.
 
5.2. nel nulla
 
lei distoglie lo sguardo – lei si toglie, non del tutto
incorrotta. Tiene il capo coperto.
Dalla mistura con la terra evapora la carne
esperta, martellata.
 
Io sono evaporata da me stessa
così ti porto irreparabilmente.
Come un’ostia su un’ostia un circolare perfetto
sale
sul manto lustro della volpe, la lussuosa
folgore fulva della coda nel folto
sragionante del bosco
e il sole come lenimento, l’uovo
sul petto del santo, che è una pozza di acqua piovana
piena di interferenze

da Serie fossile (Crocetti, 2015)

Θ – per alba
 
 
l’anima mia è un dio umano,
                                                un uccello d’altura
 
che ogni notte nidifica nel chiaro
del tuo petto
come un endecasillabo perfetto
                                                                          
                                                     (cosa) bianca e copiosa, ala sottile – rosa
                                                      e roveto, cenere – parva
                                                      tra stelle profuse,
                                                                                    bianco sangue
di spugna tubolare
nel bianco planetario, bianca tigre
seduta ai bordi della bianca strada senza dolore
 
l’anima mia cresce dalle tue ossa
come una rosa da una lingua viva
                                                       – a stille,
                                                                       a emorragia
                                                                                             – dal tuo alfabeto
                                                                                                                           inimmaginabile
 
ma è da questo corpo,
dalla sua silenziosa mietitura
che viene il verbo,
questo pane assoluto
che ti offro, questa bellezza
viva, fatta per te
 
 
6.6.13
 
x – metamorfosi
 
 
ho sellato la mia cavalcatura, suona come bronzo 
il disco del sole sulla campagna,
                                                     ispirato
                                                                    da un magnifico ariete
 
– la transumanza, un tempo irregolare
 
si apre all’alba un coro di corolle, si schiude
il tuo occhio-fiore, lascia depositare
lo sguardo nella vena d’oro
della terra, nella gioia del mondo di essere
                                                                      vivo, calpestato
da bestie da pastura, le quali sono
all’altezza della vita
 
                                                                      in verità io…
 
                                                                      mentre tutto il tuo corpo
                                                                      adorava, diceva
                                                                      mentre il bronzo degli occhi
                                                                      adorava, diceva
 
breccia madre del glicine che appari
dall’amaro del ferro
falla felice, nera spina
di robinia selvatica
falla felice, falla felice, campo
di malva, steso come una lauda
sotto l’azzurro calmo della montagna:
     
                                                                 io servo l’animale che adora il sole
 
13.6.13
 
l’usignolo
 
è stato qui un usignolo. non avrebbe dovuto essere qui, ma era qui. e ha cantato tanto. io facevo il mio piccolo canto silenzioso e lui il suo. chissà per chi cantava, forse solo per la dolcezza di cantare. senza scopo, senza vittoria. con la vita all’altezza del suo canto.
 
è così, cara Alba, io cerco che la vita sia all’altezza del canto. è questa la sventura e questo è il bene.
 
io ti ho tutta vestita del mio canto d’amore
io ti ho tutta innalzata, come erba di marzo che buca
la terra dell’inverno, come il raglio di un’asina tra i cardi
lanaioli, la barra alare gialla
degli uccelli del cielo. la tua vita
ha risposto. il tuo corpo
ha risposto
al mio canto. poi, è tornato nel limite. ma l’usignolo, fuori
tempo e fuori dalla terra
calda d’Africa, qui, dal cuore dell’inverno occidentale
 
canta, continua, canta
 
4.1.14
 
ϔ – albero, fossile
 
verrai nutrita
a lungo, avanti
nel tempo della vita, dai frutti
di un melo preistorico. in un futuro aprile, t’innalzerai
con la spina dorsale spinta
da una linfa nuova,
ricorderai la dolcezza dell’albero che non voleva morire e ributtava e rifioriva, ogni volta
che lo tagliavi. girerai indietro
la testa, allungherai la mano, la bella mano che con tale dolcezza accarezzava
i rami aperti del melo
e mangerai. allora tornerò nella tua bocca con la leggerezza della luce. e ancora,
al calor bianco del nostro tempo estivo, mangerai
la mela che ha pescato
al fondo del tempo, il frutto rosso e gonfio
come un’arteria, che scorre
dalla mia vita alla tua vita,
ma lontano, ma sotto, là dove non arriva la ragione,
nei luoghi inarrestabili. dimentica
l’albero. non pensare più a niente, soffiami via. che resti solo vita per la tua vita,
 
24.8.14

INEDITI

da Il bene morale
Parla un albero di Fukushima, 11.3.11
 
Non esiste nessuno da accusare. Nessuno contro
la paura per questo incomprensibile
male. Siamo così esposti. Così inermi. Invisibili come radiazioni.
Transatlantici e aerei da guerra
nella ipnosi nera
delle onde. Stavolta
è stato il mare. Ed è stata la terra. Tutto
oltrepassa la soglia della sua incandescenza. Nessuna madre
risalita dal fondo del mare – ci consola.
 
Terra benevola e terra tremenda
che mi sollevi. Le barre dei reattori sono esposte
ed è esposta la crudeltà del mare, esumata la solida amarezza
della madre. Nomi comuni di cose sconosciute. Ora la vedi
la morte sempre inclusa come un dubbio
nell’amore terreno. Ora lo vedi tutto l’abbandono.
 
Capelli neri come la montagna e colonne di suoni da attraversare.
Tieni alta la carne come uno stridere di freni. Sono
una cosa che ha sempre sperato. Una fiducia ottusa
nella bontà degli uomini e della natura. Solo per questo, solo per fiducia
nella bontà degli uomini e della natura mi è rimasto nel cuore
tanto amore. Ripercussioni. Scorie. Combustione stabile. Ma io sarò per te il cuneo nel cuore. Il filamento nero di carbonio. Faticherai a distinguere le parti molli, ciò che di noi l’amore lascia vivo.
 
O corpi refrattari come favi – corpi-densi
gomitoli di luce
tra i sorrisi-àncora dei figli – la radiazione
del tutto libera da impurità.
Il cuore è un materiale sovraumano
ci spinge nel torace come un favo di miele.
Che l’amore sia questa creatura – e che sia!,
più feroce del sole.

L’idiozia o lo splendore della bellezza

Adesso credo necessario un ottuso atto di fiducia nella bellezza. Agire come non fossimo mai stati. Come non fossimo mai stati traditi. Come se non avessimo visto i nostri cari morire. Agire come se fosse la prima volta. Con la stessa innocenza di Cristo. Con la medesima mortalità elettiva. Abbandoniamo tutta la speranza e tutta la sapienza come il Cristo di Hans Holbein – radice appunto immaginaria de L’idiota dostoevskiano – che nemmeno ha interesse a risorgere, che non ha più interesse a essere divino. Che non ha più interesse. Ma che, compiuto il dovere di riaprire una strada a suo modo esemplare tra i rovi del mondo, abbandona se stesso – non il suo corpo: se stesso – alla manomissione che una morte completamente umana farà della sua carne. Diventiamo la bellezza perfetta del dio morto, perché solo la fine è infinita e su di essa sola la bellezza si accampa. Assumiamo la bellezza campale del dio morto. Ovvero del perfetto idiota dostoevskiano, che non ha più la ferita e la nostalgia del risorto di Rilke per l’esperienza regale della finitudine che nonostante tutto costruisce imperi di parole. L’idiota agisce come agirà il Cavaliere di Hughes. Egli è il suo stendardo e di quello stracci. Essere stracci della propria gloria. Essere coscienziosamente carne. Carne mortale. Niente. Dante che sviene continuamente. Mostrare la bellezza di una fine che non scavalca e non trascende se stessa. Carne fatta serena come pietra. Carne completa. L’idiozia della pietra e dell’osso, l’idiozia della cosa, ovvero la più acuta tra le intelligenze, la più radicale bellezza e la bontà più radiante, la bontà idiota che Dostoevskij definiva appunto attraverso la parola prekrasnyj, a dire “lo splendore della bellezza”.

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