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Laura Accerboni (2013)

risposta a Laura Accerboni per Poesia e impegno civile dal 2000 a oggi
(tesi discussa nel 2013 con G. Amoretti ed E. Testa)

Comincio col dire che ritengo la dedizione alla poesia un gesto politico, tanto più politico quanto più i tempi sono critici e ingombri di parole che hanno come oggetto il “mercato”. La poesia non è merce, la sua natura lenta e silenziosa addirittura la oppone allo status della merce: è dunque uno fra i più intensi gesti umani di libertà. Mai come oggi ossigena lo spirito e la mente.

Se è vero che poetare contiene una intrinseca attitudine civile, potrebbe apparire superfluo e ridondante scegliere come tema della poesia argomenti a loro volta “civili”. Questo sarebbe vero se il poeta scegliesse i suoi argomenti. La libertà di un poeta è in primo luogo libertà da sé:

tanto più è ampia la sua libertà, tanto più egli la vedrà occupata dalle voci di altri. Il ruolo del suo io è la sorveglianza finale: il poeta, a cose fatte, vigila l’efficacia morale delle “sue” parole.

La poesia civile non è che ascolto delle voci di altri, consegue all’attenzione (preziosa parola campiana) che chiunque si accosti alla poesia dovrebbe portare in dote alla poesia, intendendo la parola “dote” in senso coniugale, come l’oggetto prezioso che si porta con sé dalla vita precedente.

Il poeta di norma è tutto vuoto – o tutto occupato, lo abbiamo detto, è lo stesso. In lui echeggiano voci e sentimenti di altri. Egli si mette a disposizione di voci e sentimenti di altri.

Se i sentimenti che raggiungono il poeta hanno a che fare con la guerra, è di guerra che egli parlerà. O meglio, della sua devastazione. Perché il poeta deve anche essere fortemente costituito di realtà, altrimenti la sua parola rimane incorporea o, peggio, narcisistica.

Egli, che per indole o per tradizione è liminare alle cose mondane, deve allora farsi capace di denunciare.

Perché, quando un poeta applica e sovrappone il suo mondo interiore al mondo reale, è spesso più capace di additare le disfunzioni e i guasti del mondo reale. Poiché in lui c’è una memoria strana e indecifrabile di un mondo giusto. Probabilmente una fiducia infantile, da idiota dostoevskiano, nella bontà del mondo e delle cose.

Ma anche questa è una cosa comune: tutti noi, quando ascoltiamo racconti di madri, padri e figli in tempo di guerra, riceviamo l’informazione viscerale che ciò che accade loro non è giusto. Il poeta parla per i muti e ci sprofonda nel dolore e nello strazio dell’ingiustizia, con lo strumento potentissimo di una parola che valica la forma (sebbene sia tutta formale, in poesia la forma coincide con il contenuto) per puntare all’essenza. E qual è l’essenza?

La civiltà più profonda della poesia sta nel suo ricordarci che siamo tutti uguali. Se la poesia tratta un tema di guerra, è doppiamente efficace, perché spande il balsamo della compassione su un terreno illogico di inimicizia e scisma.

Gli ufficiali nazisti amavano la poesia, magari se ne commuovevano, leggendola alla luce di paralumi in pelle umana, che li turbavano quanto la pelle dei nostri divani turba noi mentre, comodamente seduti su quel che resta di un crudo scuoiamento animale, leggiamo poesia e ci commuoviamo. Noi siamo culturalmente legittimati a non riconoscere una mucca come un simile. I nazisti negavano la propria similitudine con un’altra razza umana.

Questo nodo problematico è la radice dell’odio.
Questo nodo problematico è la radice della poesia.

Maria Grazia Calandrone

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