De Angelis Milo, Incontri e agguati (Corriere della Sera, 24.4.16)
Cosa rende poeti?, mi chiedo. Il coraggio, mi rispondo. Il coraggio di sentire – e poi di scrivere versi come “e io adesso ti rifiuto / e ti amo, come si ama un seme fecondo e disperato”. E il coraggio emotivo e umano (prima del poeta è indispensabile l’uomo!) di De Angelis, meglio si manifesta nella rischiosissima ultima sezione, Alta sorveglianza, scritta sul carcere di Opera, dove De Angelis insegna e dove è stretto a riflettere intorno all’uccisione della cosa amata, come scriveva amaramente Oscar Wilde dal carcere di Reading. Nel carcere le parole fanno diga al veleno del silenzio: il silenzio del carcere non è quello atemporale e onirico che abita i poeti, è il silenzio feroce di una morte in vita che, come la morte della prima sezione, sembra iniettare “nell’alba il suo buio primitivo” e lascia dilagare una disfatta, una disfatta solitudine, non la fusione cosmica all’esistente. Dunque, ai detenuti occorre parlare con parole che siano anche semplicemente suono, testimonianze sonore di esistenza in vita. Se l’omicidio è potuto avvenire, è stato perché tutto era solo “pensiero”. Come per Gustav Richter, il giardiniere di Spoon River. Ma qui si tratta di ben altro pensiero, si tratta di fissazione del pensiero e di una lontananza che non induce alla pace, ma all’amplesso finale di amore e morte, a quella donna uccisa da vicino come per amore, ma a colpi di coltello. Il carcere di De Angelis è sì nebuloso e interiore, ma è anche vivo, popolato e reale: il poeta non risparmia stoccate ai volontari e ai preti predatori, ma il bellissimo Incontri e agguati si chiude con lo struggente corale di chi ha assassinato e adesso è abitato dal fantasma del proprio omicidio, messo a disposizione di tutti – e chissà se stiamo infine cantando la nostra salvezza, tracciata a mani nude sull’asfalto o, piuttosto, una condanna a morte desiderata, la nostra: “esecuzione”.
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