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Bonin Simone Maria (6.16)

 Simone Maria BONIN, Song of Songs
“Poesia” n. 316, giugno 2016

Simone Maria Bonin appare immediatamente come figura anomala nel panorama poetico contemporaneo, legato com’è a una tradizione lirico-mistica, diremo meglio: biblica, frequentata da pochi dei nostri autori viventi. Bonin prende infatti spunto dagli Esercizi platonici di Elio Pagliarani (che andò provocatoriamente alla scoperta di frammenti poetici tra le parole del filosofo che più diffidava della poesia, quale ambigua generatrice d’infingimenti) e riscrive il Cantico dei Cantici, basandosi sulla versione secentesca di Giovanni Diodati. Operazione, questa, colta e rischiosa, perché qui si estraggono concrezioni di poesia da uno dei più bei testi poetici di tutti i tempi, sfavillante com’è di semplicità e coraggio, che sciorina versi come “Amica mia, tu sei bella come Tirsa, Vaga come Gerusalemme, Tremenda come campi a bandiere spiegate” e che contiene pure una suggestiva toponomastica amorosa, quasi che il “cavriuolo languente di amore” avesse a orientarsi nel mondo tenendo a mente il volto dell’amata come una mappa geografica: “Il tuo naso pare la Torre del Libano Che riguarda verso Damasco. E gli occhi tuoi le pescine che sono in Hesbon, Presso alla porta di Bat-rabbim”.

Una tra le più commoventi qualità dell’amore è che ci fa scrivere cose delle quali domani ci vergogneremo. Perché, come scriveva Pessoa: “Tutte le lettere d’amore sono / ridicole. / Non sarebbero lettere d’amore se non fossero / ridicole. / Anch’io ho scritto ai miei tempi lettere d’amore, / come le altre, / ridicole. / Le lettere d’amore, se c’è l’amore, / devono essere / ridicole. / Ma dopotutto / solo coloro che non hanno mai scritto / lettere d’amore / sono / ridicoli.” Naturalmente pure le poesie d’amore, per quanto alta si tenga la vigilanza, risulteranno un giorno meravigliosamente ridicole. Oppure il poeta costruisce un mondo immaginario e severo per sfuggire al suo stesso straziante desiderio, com’è spiegato nella bellissima canzone di Roberto Vecchioni dedicata a Pessoa: “E capì tardi che dentro / Quel negozio di tabaccheria / C’era più vita di quanta ce ne fosse / In tutta la sua poesia; / E che invece di continuare a tormentarsi / Con un mondo assurdo / Basterebbe toccare il corpo di una donna, / Rispondere a uno sguardo… / E scrivere d’amore, / E scrivere d’amore, / Anche se si fa ridere; / Anche quando la guardi, / Anche mentre la perdi / Quello che conta è scrivere”.

Anche tutto il parlare, nel Cantico, di colombe impresse nella pupilla dell’oggetto d’amore, è, a ben vedere, meravigliosamente ridicolo: gli innamorati traboccano e, così traboccando, perdono il senso dell’ironia e del grottesco. Per quanto essi si sforzino di “modernizzare” l’assoluto e l’eterno, per quanto cerchino di non usare metafore e parlino di semplici e meri fatti, sono gli stessi fatti, è l’intera realtà, a venire stravolta, illuminata, svelata dalla fiamma del sentimento amoroso, insomma: fusa, colata e rinata in un calco stillante di luce propria. Nel testo di Bonin viene anche detto: “non amate amore prima / d’ogni sua parte”. Dato il contesto nel quale è inscritto il Cantico, potrebbe forse voler dire che prima di amare il sommo amore (Dio) bisogna aver amato le sue creature – ma io, da laica, voglio intendere che dell’essere amato bisogna aver amato tutto: gli occhi, le mani, la voce, i capelli, il disordine, ogni dettaglio, il riso, il pianto, l’ironia e anche le più aspre parole, prima di poter dire di averlo amato e di amarlo.

A Song of Songs, poemetto tanto ricco di riferimenti e citazioni che provengono da una rivisitata antichità (attualissima, come abbiamo visto) sentimentale e creativa, si aggiunge un secondo testo, scritto intorno all’istantanea di un’esperienza umana che si consuma in un tempo brevissimo e che, a sua volta, fa riferimento a una scrittura, ancora una volta biblica: evangelica. Bonin mi scrive di aver lavorato per tre anni in una casa di riposo inglese a Leamington Spa e che una sera un’anziana signora cominciò a straparlare, mentre Bonin le leggeva l’Apocalisse di Giovanni, come lei voleva. Anche nel secondo poemetto vengono citati versi di un giovane poeta ed editore irlandese, Dave Lordan, che afferma di aver allucinato l’intera isola d’Irlanda, la prima volta che si è trovato di fronte al corpo nudo della donna amata – e la miracolosa visione qui riferita si mescola ai versetti dell’Apocalisse e ai lamenti delle fatiche corporali di una donna anziana, in una specie di bruciante, concitato, cantilenante, ipnotico cortocircuito temporale, che ci porta in un luogo dove siamo già stati. E non dimentichiamo.

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