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dicono che il carnefice è chi ama (succedeoggi, 28.8.16)

Le parole e i fossili, intervista di Pasquale Di Palmo – succede oggi (28.8.16)
 
Maria Grazia Calandrone, poetessa milanese che vive e opera e Roma, ha pubblicato varie raccolte, tra cui La scimmia randagia (2003), La macchina responsabile (2007) e Sulla bocca di tutti (2010), edite da Crocetti. Sempre per l’editore milanese è uscita nel 2015 Serie fossile (144 pagine, 14 euro) che conferma l’impressione di trovarsi di fronte a una personalità sicura, capace di misurarsi, nella sua versatilità, con esiti che si ricollegano sia al versante della poesia amorosa sia a quello della poesia civile che, nella nostra tradizione novecentesca, ha referenti d’eccezione come Fortini e Pasolini, la cui opera è richiamata a più riprese nell’ultima silloge.

Il dettato della Calandrone, peraltro, non è immediato né semplice, essendo la sua poesia sfuggente, magmatica, di difficile catalogazione. Una possibile eco potrebbe derivarle dalla voce “atipica” di Amelia Rosselli o, per rimanere in un contesto cronologico più ravvicinato, di Antonella Anedda. Tuttavia non mi sentirei di ascrivere questa poesia ad ascendenze di tipo sperimentale nonostante il proposito di rendere la parola poetica meno “fossile” di quanto sia, bensì a una lirica che si muove sapientemente sul filo del rasoio che divide tradizione e modernità, affiancandosi (e affrancandosi) con colpi improvvisi di coda da una deriva anziché da un’altra.

La sua ultima raccolta poetica Serie fossile si caratterizza, fra gli altri aspetti, per la presenza di un singolarissimo bestiario. Ce ne può parlare?
Il bestiario sta a significare metamorfosi, fluidità, possibilità umana di incarnare ogni specie animale. Sta a significare che noi siamo potenzialmente tutto e tutti. Poi, c’è l’io: la biografia, la psicologia – che caratterizza una singolarità, ovvero (concretamente, semplicemente, banalmente) quel che ci è capitato nella vita e che ci ha forgiati in una determinata forma. Ma ricordare la nostra potenzialità è una salvezza dalle gabbie formali, anche dell’io, dove ci rinchiudiamo per abitudine, per comodità, per paura dell’Aperto di Rainer Maria Rilke, quell’Aperto che l’animale guarda, al quale l’animale appartiene. Serie fossile è abitato da un corpo vivente mentre ricorda il suo essere animale, dunque la sua inclinazione alla gioia elementare, condivisa col resto della natura. È una bella Sido contemporanea, la grande madre sapiente di Sidonie-Gabrielle Colette…
 
Da svariati anni lei firma una rubrica intitolata Cantiere Poesia dedicata ai giovani autori che appare sul mensile Poesia edito da Crocetti.
Sì, è così. Questo mi permette di avere un punto di vista privilegiato, un panorama abbastanza ampio e preciso di quel che accade alla poesia in Italia prima che arrivi ai circuiti “ufficiali”, ovvero prima che venga consacrata da una pubblicazione. Posso dire che la poesia è vivissima, che ci sono stuoli di scriventi di buon livello. Questo significa che, socialmente, sentiamo un bisogno profondo di guardare la realtà con occhi nuovi. Ovvero: “originari”: con gli occhi che avevamo da bambini, nonostante la tetra tentazione del disincanto.
 
Lei spesso ha affermato che la figura di suo padre è stata fondamentale per la sua formazione. Può ricordarci chi era?
Mio padre era un operaio metalmeccanico che, con la propria passione e il proprio studio, è diventato dirigente comunista. Ha combattuto da volontario nelle Brigate Internazionali, contro il dittatore Franco, per la libertà del popolo spagnolo. Un homo faber e insieme un homo sapiens, secondo l’esatta analisi gramsciana. Un uomo che faceva le cose per trascinare in terra l’utopia. Il suo esempio è per me illuminante. Sebbene sia morto quando avevo dieci anni, ha lasciato in me un’eredità incancellabile, anche attraverso i suoi libri. Posso dire che la mia vita sia un tentativo di essere alla sua altezza.
 
Che cosa sta preparando attualmente?
A luglio sono usciti due libri, uno di teatro, Per voce sola (una raccolta di quattro monologhi con miei disegni e fotografie, cd allegato di Sonia Bergamasco con le musiciste di EsTrio, che interpretano uno dei testi raccolti: l’intera storia di Robert Schumann raccontata allo stesso Robert ormai molto malato da Clara, sua moglie, con toni ironici, drammatici, scherzosi: in sintesi, amorosi) e un altro di poesia, Gli Scomparsi – storie da “Chi l’ha visto?”, che raccoglie alcune storie ascoltate durante l’edizione 2004 di Chi l’ha visto?, condotta da Daniela Poggi.
Nell’attualità, sto scrivendo con Gabriella Schina, autrice teatrale e cara amica, una sceneggiatura cinematografica dal titolo Un amore e sto portando a termine un nuovo libro di poesia, Giardino della gioia. Per il prossimo inverno, ho in progetto due nuovi laboratori video: uno con gli studenti del Cine-tv “Roberto Rossellini”, dove ho già realizzato questo lavoro per l’iniziativa “Caro poeta” 2016 e uno con gli ospiti del Centro Diurno “Monte Tomatico”, in collaborazione con l’educatore Giulio Candiolo e con il regista e poeta Stefano Massari. Infine, il musicista Stefano Savi Scarponi, con il quale abbiamo già realizzato il progetto Senza bagaglio, sta lavorando a La questione degli organi celesti, un nuovo videoconcerto al quale partecipo con testi e voce.
 
Ritiene che, in un’epoca come la nostra dominata dal cinismo e dalle regole dettate dal profitto economico che sempre meno collimano con le esigenze reali delle persone, la poesia civile possa ritagliarsi un minimo di visibilità?
La poesia è civile per il solo fatto di essere poesia. È rivoluzionaria e controcorrente, perché sta tra le principali attività umane che esprimono una logica contraria al mercato, in una società dove il mercato impera. O meglio, dove ha imperato, visto che stiamo assistendo ai risultati catastrofici della sua legge di prevaricazione e burocrazia. Non credo alla poesia di “argomento” civile, anche se io stessa ne ho scritta, e molta. Credo però che il tema non debba essere programmatico: per i poeti, che per forza di cose vivono in un determinato tempo e in un determinato luogo, è spontaneo farsi carico della voce di altri, della protesta di altri. La poesia testimonia, denuncia, soprattutto ricorda. Ricorda a tutti chi siamo e come dovremmo vivere. Canta la bellezza e la giustizia, canta l’Umano. Basta guardarsi intorno, per comprendere l’importanza di questa forma di resistenza. Assoluta.
 
Lei conduce per la Rai vari programmi radiofonici e televisivi dedicati alla poesia. È possibile scalfire l’indifferenza della gente verso tale disciplina?
Certamente sì. Le persone hanno pregiudizi intorno alla poesia, a causa dell’insegnamento scolastico. Non sanno che la poesia li riguarda. Non sanno che i poeti sono vivi e sono gente “normale”: fanno la spesa, hanno il raffreddore, si annoiano facendo la fila, come tutti gli altri. Ascoltare i poeti alla radio accorcia la distanza mitica e deleteria che la scuola crea tra i poeti e il mondo, corregge la superstizione che la poesia non abbia a che fare con la realtà, ma sia fuga, evasione, bambinesco diletto. La poesia è tutt’altro. È indagine seria e severa sul reale. Condotta con capacità (anche nel senso di spaziosità) sentimentale. Ma non bisogna dirlo, bisogna farlo. I fatti sono assai più persuasivi delle parole. A parte quando le parole sono poesia.
 
Può commentare la poesia inedita che qui presenta?
L’inedito è tratto da Giardino della gioia, prosecuzione chiarificata del tema amoroso di Serie fossile. Il tema amoroso è enorme. Insieme alla morte, alla quale è strettamente connesso (addirittura sviluppando, a posteriori, l’etimologia fantastica: “a-mors”, senza morte), è il grande tema umano.
Sono sempre più convinta che le cose vadano dette con parole semplici e chiare. Le cose da capire sono poche e, una volta che le abbiamo capite bene, siamo in grado di esprimerle con nitore. Come scriveva Wislawa Szymborska poco più che ventenne: “Il nostro bottino di guerra è la conoscenza del mondo: / – è  così grande da stare fra due mani / così difficile che per descriverlo basta un sorriso”. Con la persona che amo desidero dichiarare che l’amore è spesso avvertito dall’oggetto d’amore come un pericolo. Non è per niente facile lasciarsi amare: crediamo sempre di non meritarlo, di non averne diritto, dunque prendiamo a distruggere: each man kills the thing he loves, come scrive Oscar Wilde. Uccidiamo quello che amiamo. Peggio. Uccidiamo chi ci ama, a causa del nostro banale pregiudizio di non meritare l’amore che ci viene offerto. Arrivare a credere di meritare amore è un duro lavoro. E così, troppo spesso, anziché amare, preferiamo diligere, cioè scegliere riflettendo. Cadendo così, amaramente, nell’illusione di essere liberi.
 
la persona che amo era gentile
e io l’amai da subito
perché era la persona più gentile
che avessi conosciuto
 
la persona che amo io l’amai da subito con una emanazione ininterrotta
di gioioso amore
perché era dolce e umana
e aveva cura del bene
di tutti
 
la persona di oggi
parla per ferire
chi la ama, parla
per infierire e non si scusa
e non spiega

io, che non credo all’evidenza del male,
cerco la colpa
 
mi dicono che questa
sia la colpa: non andare via,
non essere precaria
 
dicono che il carnefice è chi ama
 
dicono che l’offesa sia ottenere
quello che per diritto naturale
aspettiamo nascendo: essere amati
senza condizioni
 
dicono
che la ferita
non sia la mia, d’essere abbandonata,
che la vergogna più profonda sia
essere
finalmente
senza pretese e senza condizioni
 
finalmente amati
 
 
19 maggio 2015

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