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Il libro degli allievi. Per Biancamaria Frabotta (Bulzoni, 2016)

da “Il libro degli allievi. Per Biancamaria Frabotta” a cura di Alessandro Giammei

contributi di: Marco Caporali, Paolo Febbraro, Melania Mazzucco, Mario De Santis, Stefania Benini, Giommaria Monti, Pietro Pedace (nella memoria di Tommaso Giartosio ed Edoardo Albinati), Maria Grazia Calandrone, Simone Caltabellota, Vania De Luca, Nicola Sguera, Stefano Carta, Barbara Castaldo, Michele Fianco, Massimiliano Tortora, Andrea Annessi Mecci, Giovanni Battista Elia, Simone Zafferani, Davide Toffoli, Salome Buttarazzi, Monica Venturini, Elisa Donzelli, Irene Teodori, Carmelo Princiotta, Alessandro Giammei, Giovanna Amato, Martina Piperno, Marzia D’Amico, Laura Ferro, Gabriele Sebastiani e Annamaria Piccigallo

Gli occhi della pantera

L’incontro con Biancamaria Frabotta per me ha significato l’ingresso nel mondo della letteratura vivente. La parte per il tutto. Ma anche: l’inizio di una rivoluzione.

L’incontro è avvenuto durante l’anno del Signore 1990: occupazione dell’Università, protesta nazionale contro la riforma Ruberti, che apriva la strada alle privatizzazioni. La svalutazione dell’umanesimo, cominciata negli anni Ottanta con Fininvest, veniva assunta e formalizzata dal mondo della cultura. La cultura strizzava l’occhio al mercato. Allarme rosso! I malumori degli studenti si agglutinarono in forma di Pantera. Chi c’era, ricorda. Per chi non c’era: una pantera vagava inopportuna e inafferrabile per le strade di Roma, predava ovini nelle periferie Nord: venne immediatamente eletta a simbolo del desiderio di giustizia e libertà di noi ragazzi, che desideravamo essere eversivi, sinuosi e pericolosi come quel felino, panthera pardus, inaddomesticato e fuori luogo.

Ma l’esplosione fu emotiva, generosa, non violenta ma non meditata: ci mancava un solido programma alternativo a quello curricolare. Provenivamo tutti da un decennio che aveva gettato le basi sociali dell’individualismo che sta ancora ammalando il nostro paese. Divide et impera. Non eravamo abbastanza politicizzati per ideare una riforma funzionale: in quel clima di euforia generale e di buona volontà, si ragionava sul da farsi in assemblee confusamente democratiche: cercavamo soprattutto la strada di una perduta collettività. Ricordo le interminabili discussioni circa l’opportunità della nostra apertura ai lavoratori, ricordo le gioiose incursioni del P.I.C., Pronto Intervento Creativo, costituito per la maggior parte da variopinti, esuberanti ragazzi del Dipartimento di Cinema e Spettacolo.

Io venivo da una identica realtà interiore, ma profondamente diversa nei fatti: accudivo da anni una nonna amatissima e l’avrei fatto fino alla sua morte, perciò coinvolsi i miei nuovi, compiacenti compagni, in letture collettive presso il mio domicilio. La mia libertà di movimento era limitata dai ritmi ordinatissimi della gestione di una donna in permanente pericolo di vita, così i nuovi amici, a cadenza settimanale, traslocavano in gruppo nelle mie stanze semivuote e multicolori: l’arredamento – scrivania, comodini, librerie – era costituito per la gran parte da pile di cassette della frutta e bancali di legno, che avevo variopinto con le bombolette spray. Eravamo straordinariamente liberi, dentro i confini della mia prigionia amorosa. Mettevamo a frutto l’incontro fortuito, ci accaloravamo sulle rispettive scritture e sulla facoltà di intendere e volere la poesia. Credevamo nella rivoluzione della bellezza: “SI PUÒ FARE!!”, stabiliva lo striscione teso sul muro esterno della facoltà di Lettere e il ben noto “LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE” era impresso sulle scale del Rettorato, accompagnato dalle impronte rosse della Pantera. Ma eravamo premuti dal malcontento di alcuni compagni, che si trovavano travolti da una microrivoluzione che non avevano deciso, mentre loro desideravano sostenere regolarmente gli esami della sessione invernale.

Questo il contesto. Biancamaria Frabotta aveva gli occhi azzurri, intelligenti e  ironici. Fendeva la piccola folla che abitava i corridoi e le scale della Facoltà di Lettere e Filosofia sventolando le ali della sua fascinosa mantella da Zorro. Io salivo e scendevo fasciata in un impermeabile bianco alla Humphrey Bogart. Ero curiosa e testarda.

Da questo contrasto non poteva che nascere un affetto profondo.

Lei era fra i professori che si tenevano dalla nostra parte e alimentavano la nostra esperienza con il racconto della propria. Alcuni si erano messi a disposizione per tenere sporadiche lezioni, o seminari autogestiti. Fra questi ultimi: Biancamaria Frabotta, benché fosse in congedo. Col cuore in gola per le sorti della mia figlia novantenne, mi concessi di non mancare un solo appuntamento del seminario autogestito di poesia. In un contesto emotivo euforico e propositivo, per me che ricordavo i collettivi studenteschi del 1977, incontrai dunque la poesia contemporanea, ovvero la mia sede naturale: scoprii Ora serrata retinae di Valerio Magrelli, che analizzammo insieme su suggerimento di Simone Caltabellota – e poi Giorgio Caproni e Vittorio Sereni, quando, immancabilmente, cominciai a frequentare le lezioni regolari di Frabotta, durante la successiva annualità.

Mi ero malauguratamente formata, contro ogni mia volontà, in un asfissiante collegio di suore, dove la mia persona era stata costretta a coabitare con un’inappuntabile (quanto per me inappropriata) apparenza formale. L’indimenticabile divisa blu con camicetta bianca abbottonata. Trasgredivo slacciando bottoni di camicie, polsini e giacchette, lasciando penzolare camicie oversize fuori dalla gonna di ordinanza. Un impulso che sarebbe diventato uno stile. L’indimenticabile solitudine dei pomeriggi passati nel refettorio a leggere libri proibiti, studiare filosofia e scrivere poesie delle quali non resta più traccia. L’indimenticabile 3 preso in un elaborato su Petrarca, nel quale, come mia consuetudine, ero andata fuori dal seminato. Imparai a prendermi la libertà dove era impossibile.

Arrivavo ai corsi di Frabotta arrabbiata, timida e sempre di fretta. Tanto quanto lei era serena e solida nella sua cultura, elargitiva e intelligente, pronta alla sfida e a un insegnamento fatto con l’esempio. Biancamaria è un’insegnante carismatica e maieutica: più che spiegare, presenta un mondo, affascina e induce a seguirla. Io facevo obiezioni per la gran parte inopportune, lei mi accusava spesso di primitivismo. Perbacco, se aveva ragione! Però, la divertivo. Le facevo domande sull’umano, lei aveva la generosità e la saggezza di non voler incasellare la mia curiosità. Ero assetata di tutto. Fu presto chiaro a entrambe che, per me, la poesia non aveva a che fare con le classificazioni letterarie, ma era un modo di stare al mondo, una forma di indagine e conoscenza della realtà. Studiavo con passione quello che lei ci offriva. Sopra ogni cosa, Un posto di vacanza e Il seme del piangere. Riconoscevo e salutavo con gioia i morti affettivi di Sereni e “la mamma più bella del mondo” di Caproni, quel lutto che, siccome non va più via, viene cantato come una ninna-nanna, come quando i bambini si cullano da soli perché fuori è buio e il buio è vuoto che dilaga, ora che lei non è.

Poi, una bella mattina, Monica, generosa compagna di allora, consegnò a Frabotta le mie poesie. Indimenticabile la reazione della professoressa, che mi telefonò il pomeriggio stesso: “Da dove le hai copiate?” “Come, copiate?” “Sono molto belle. Ma non è poesia italiana”. Certo. Ignorante com’ero, ero libera. Anche dall’influenza letteraria nostrana e da ogni altro genere di condizionamento stilistico, ma anche umano. Frabotta, anche quando la nostra divenne l’amicizia che oggi è, è stata una maestra illuminata: ha avuto l’accortezza e l’acume di ritirare la sua influenza dalla mia poesia, della quale riconobbe la forza proprio nel nucleo della sua debolezza. Da critica esperta e militante, ha mantenuto un profondo e intelligente rispetto per la mia natura, così diversa dalla sua, non ha voluto fare della mia poesia una costola della sua poesia. Io sarei stata goffa nei suoi panni. Le sarò sempre grata per quel passo indietro.

Fu l’inizio di un’amicizia intensa, che dura da allora. E della quale sono grata all’utopia, che per noi ha preso la forma nera di un felino dagli occhi gialli. Fuori luogo e fuori tempo, ma: vivo.

Roma, 15 gennaio 2016

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