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Per voce sola – monologhi teatrali con disegni, foto e cd (ChiPiùNeArt, 2016)

lamammapiùbelladelmondo
(7.10.09)

Pochi avvenimenti, felicità assoluta (2.10)

La scimmia bianca dei miracoli (18.12.10)

elle
(15.1.16)

 *

cd allegato Sonia Bergamasco con EsTrio in Pochi avvenimenti, felicità assoluta

nota sonia bergamasco
postfazione andrea breda minello

 

da La scimmia bianca dei miracoli
Ragionamento della scimmia (Biblioteca Vallicelliana, 1.6.11)

http://www.youtube.com/watch?v=EnCrxdCMM4A

  da lamammapiùbelladelmondo

storia liberamente tratta dal programma televisivo “Chi l’ha visto” e già parafrasata in versi nel volume Gli Scomparsi (Gialla Oro pordenonelegge, 2016)

SINOSSI
Annina, madre di Angela, una bimba di nove anni, entra in coma a causa delle percosse ricevute dal marito. Si sveglia “incapace di intendere e volere”: viene internata e la sua bambina viene data in adozione. La mamma invoca invano la figlia per trent’anni – dopo i quali, grazie all’intervento di una nipote che chiede aiuto ai giornalisti televisivi, le due donne sono finalmente una di fronte all’altra. La mamma non riconosce in quella donna adulta la bambina che tanto ha chiamato.
Testo – intrecciato a pochi versi tratti da Il seme del piangere di Giorgio Caproni – sulla irreparabilità del danno e sulla opportunità di un Mondo delle Idee più vero del vero.

PERSONAGGI:
Annina
Angela (ovvero Angelina quarantenne)
voci fuori scena: il Marito
Angelina bambina

[…] III
monologo di Angela

Interno, una camera da letto signorile.
Una donna sorride nel sonno e si sveglia, ma la sua voce ancora sta sognando

Angela:
Nella sua bocca c’è il buio clamoroso dell’inferno e un dialetto lunare,
c’è un corpo che mostra il vero sangue, il fiore nero di una sposa e il mare scosso da scudi di puro acciaio come ombre di aerei in quota sul mondo
e il mondo è retto da palafitte di sabbia e tutto quasi crolla ed è fondato solo sulla voce che viene come una traccia smagnetizzata
su dalla bocca.
Quella voce ha un odore – cannella e zucchero – che mi riguarda e ha una eco di prato, un tonfare di calci tra reflussi di sole
a capofitto nelle reti.
La voce viene dallo spiazzo nudo e senza maltempo che ho qui, poco sotto la fronte.

Annina, fuoricampo:
Io vengo fino a te
dal mondo prima dello scisma, dove la voce è fatta per chiamare, non per disperdere. 

Angela:
svegliandosi un poco ancora, lievemente più narrativa

La sua bocca mi chiama dai sogni fin da quando ho memoria, con un filo di voce fin da quando ho memoria, sembra un rimescolio di tutto il mare dietro, una pesca assolata nella mischia schiumante del mare e intorno vedo il corpo, alto e gremito come la montagna.

Lei è un albero, con tutte le radici nelle profondità della mia vita
e rincresce coi piedi sul mio petto.
Porto una donna in piedi sul mio petto con la mano perfettamente eretta e la bandiera di una voce nuda che mi chiama. Il corpo è vero e la sua mano tesa mi interessa, anche la posizione della voce che dice:

Annina, fuoricampo:
Io resisto, io per te
sono rimasta alzata come l’albero, sono il corpo che vedi di spalle di fronte al mare e la nave con la chiglia laccata dall’azzurro.

Angela:
Tutti abbiamo un barbaglio di sole perfetto tra le foglie perfette mai esistite, perché il tempo ha pietà delle sue pietre: spreme un mero significato dai corpi mentre li disfa, cava già in vita il fuoco fatuo dei corpi che sgretola.

Ecco: l’unico bacio dato senza pensiero mentre il sole moriva, come se il mondo fosse col sole trascinato al di sotto della coscienza e veramente fossero oscurati i suoi legami, ecco un mattino di cristallina luce dentro la quale il corpo era tutto colpito e presente, ecco la fiamma ancora viva della filosofia e le risate davanti al fuoco acceso dall’amico, per quel bicchiere di vino talmente malvagio che non potemmo più ignorare la nostra innocenza.

Eccoli, tutti insieme, i momenti nei quali sono stata felice, che adesso che mi vado facendo vecchia si infilano da soli sul filo di una stessa Era e mi sembra di avere vissuto una continua allegria, una tondezza quasi insopportabile, dove sfolgoro e sorgo come il globo del sole e me la rido!


E così, sarò pronta a partire da orfana, come chi è appagato.
Queste sono le miniere del mio paradiso, la gioia di chi ha imparato a scegliere le illusioni…
Io ho perduto già tutto una volta, dunque sono immortale.

si alza e comincia a passeggiare infiammata nella stanza

Sono costretta dal mondo a dirle illusioni!, e invece so che la natura agisce come noi sopravvissuti, come noi immortali, come noi già morti una volta per il grande dolore, noi che non abbiamo più paura del Massimo Spavento della morte, perché ormai non possiamo rimorire.

Altrettanto immortale la natura. La natura conserva ogni molecola, non butta via nemmeno la sua polvere. La natura trasforma ogni male: fa di un morto una toppa di corteccia, un volatile, di ogni ramo caduto: grasso concime, per tutto l’altro pino ancora in piedi che rigoglia e che splende verso il cielo, fino a che ricadrà.

La natura è ironica e segreta.
Mangi una mela, e poco fa era il corpo di un colombo.
E tu: chi eri tu, quale corpo, quale mischia amorosa di organismi, quale insetto? Come sei entrato nelle tue scarpe, sai dirlo?, da quale ammasso di fogliame vieni, da quale marcio, da quale rapimento, da che larva, da che osso caduto dalla bocca di un cane, da quale aquila che ha guardato la terra e ha voluto chiudere le ali, da che fasciame di nave venuto ad arenarsi tra i cetacei e la sabbia remota degli oceani, da dove viene il muscolo del cuore che hai lasciato
a traboccare in quell’unica notte e in quanta nuova dolcezza, in quale mai sorriso o zampettare o torcersi o innalzarsi verrai diviso dalla morte?
In quali forme apparirai fino alla fine del mondo?
Attraverso che strani mutamenti porterai il tuo amore alla fine del mondo?
Sarai una scimmia, un lemure, un gabbiano, sarai un alieno, un verme – così calmo e insolente, perché hai lasciato che l’amore ti facesse vivere come fa vivere una spada:
l’amore senza terra
la foglia d’oro
che porterai alla fine tra le labbra
l’orofiamma che lascerai cadere
solo ai suoi piedi.
Niente si è mai disperso.
Niente che è stato vita va perduto.
Niente come la morte ama la vita. 
Dirai allora che il nulla non esiste
che il vuoto è un’invenzione di chi ha sconfitte da giustificare. Allora tutti vedranno
che alla foglia risponde tutto il corpo,
che il mio corpo è il tuo nome.

siede sul bordo del letto guardando fuori dalla finestra con una tragica dolcezza primaria

Adesso sono un sasso sgretolato dall’impeto del fiume che non smette
di farsi avanti, verso la distrazione. Mamma, mia
casa, Itaca. Più scompaio, più ti vedo.
Il tempo ha raddrizzato la tua schiena.

Io non voglio più essere salvata, io voglio fiancheggiare la tua morte apparente. La mia vita è una macchinazione lenta per arrivare a stare faccia a faccia con la radura emersa dal tuo volto. Ho spolpato la terra fino alle ossa sepolte dei cervi, sono il cranio sepolto del tuo cane da caccia, la sua orbita che ti guarda da sottoterra con lo stesso amore, mi sono aperta come la foresta, ho le orbite vaste come laghi montani. Io non sapevo più dove cercarti, subivo le spallate dei cinghiali e sanguinavo dal basso, nel mio cuore di fango: ti aspettavo, scavavo.

Io sollevo la terra fino alla bocca, io pronuncio e divoro la terra per essere presa sotto forma di terra nella tua bocca
immobile, io navigo
verso di te in mezzo alle tempeste
e alle alte e basse tentazioni come Ulisse e mi trasformo per raggiungerti e infine niente sarà potente a paragone della mia gioia e del mio perdono – quando sarò come te capace, ampia e trasformata
in ogni cosa pensabile. Ovvero sarò niente, niente… sarò monda, pura, cocente – sarò
il mondo,
espansa e indifferente come il mondo
che tace sotto ognuna delle sue rovine e non dà altro
che bene.

Sono ovunque tu sia, sono la terra, sono ovunque tu voglia calpestarmi. Questo diventa un’orfana. Così un’abbandonata
annulla la sua perdita: diventando generica, essendo ovunque, cioè niente in nessun luogo. Un’orfana di madre è colei che non è. Io sono uno strumento musicale di acciaio da cerimonia.
Ecco da quale luogo lei mi chiama e canta: Ancilina, Ancilina…

La voce di Annina si sovrappone sussurrando a quella di Angela

Annina:
Ancilina, Ancilina…

Angela:
Dice solo il mio nome, detto così, che sembra
il nome di un pupazzo, di un dinosauro, il nome di quei prati che profumano d’aria, nome di vele gonfie di vento e semplici – e delle nuvole che stanno in sospeso sulle marine giovani, posate dalla mano di un bambino. Si sente il mare vicino, che si può raggiungere a piedi, nel mio nome
detto così.

E mi fa dei regali bellissimi, bambolette
di pezza e rami, vestitini di foglie con le trame di filo di ferro.
Costruisce biglie
con gli aghi di pino e il fango, piste tutte contorte dove farle girare.
Certe notti mi porta strane cose, cucinate in grandi piatti bianchi, piccole sfere verdi in una salsa gialla di burro fuso e quadrati di polpe salate, con l’uva passa e i pinoli.
O tiene nelle mani stampi di cotto color senape, con sopra le lucertole a sbalzo che pare debbano saltarti in bocca mentre affondi il cucchiaio nella crema bianchissima con le codette colorate a pioggia e gli amaretti al fondo come un sorriso ironico, in tanta esagerata dolcitudine.
E, mentre lei cammina
canta, quel lunghissimo canto muto come una combustione lontana, una cosa che arde in un angolo senza cedere mai
alla tentazione della calma e del freddo.
Tutto il suo corpo è chiuso in un richiamo – ma sereno, come si chiama una cosa vicinissima, che si sa che sta già per voltarsi, per dirci – eccomi, sono io, sono qui…

Si sente la voce di Annina che canta “Yumeji’s Theme” – e Angela le fa la seconda voce

Angela:
E infatti sto per dirglielo e non riesco
mai, so soltanto ricevere dalle sua mani quei cibi e quel sentimento di sole come un’ostia – e tacere.
Però a volte non vedo il suo volto, sento solo la voce che viene
come da dietro una tenda pesante
ed è amorosa e buia, con dentro tutto il bruno delle sere d’inverno, quando non si può uscire per la grande tormenta che ulula in cerca della pace dei nostri letti e si passano ore a raccontare storie, che ancora più fanno rabbrividire.

E poi vedo la donna crocefissa, lontana, quel corpo grande come una montagna, quel corpo umano grande come il mondo – e che del mondo ha la dolcezza e la realtà, è qualcosa che posso toccare:
un sogno
che interrompe un sogno, la gran pozza di mare nella quale io nuoto da sveglia. Tutto il giorno
dopo che l’ho sognata, io sto come seduta sul mare – e lei è al mio fianco, e mi tiene la mano, guardiamo davanti
e basta.

Marito:

“Annina tutta odorosa
di camicetta e di rosa
(Annina appena sposa
da un’ora) con fantasia
sporgeva di ciclamino
il braccio, cui via via
dondolando commosso
al saluto, rosso
tinniva il cornettino
di corallo, al polso.”

 http://www.youtube.com/watch?v=IFVTZkIjXtU
frammento dell’intervento di Maria Grazia Calandrone su Clara e Robert Schumann, ad apertura dello spettacolo “Pochi avvenimenti, felicità assoluta. Scene da un matrimonio” per Estate romana, “I concerti nel parco” (Casa del jazz, 12.7.17)

NADIA AGUSTONI in punto critico 2 (23.9.16)
La mancanza assoluta non si dà comunque mai, il ricordo può ricreare sempre, al di là del male patito. […] quell’amore che, non riconoscendo nient’altro che l’antico volto, lo innalza a voce nella propria voce. […] La passione di vivere, anche quando l’oggetto d’amore è stato danneggiato, è accettazione di ciò che l’amore è: accogliere la nostra imperfezione. […] La voce si pone in un lucido ripercorrere gli eventi e la propria storia, non per ricomporre, ma per appartenere, come ognuno appartiene a se stesso: da straniero. […] Non è un dire “al femminile”, ma amare in un’altra parola.

CARLO DUTTO in CloseUp (7.2.17)
Il libro, impreziosito da foto e disegni dell’autrice, contiene quattro monologhi di grande intensità scritti per Sonia Bergamasco. I testi, alcuni dei quali già rappresentati, sono: lamammapiùbelladelmondo, ispirato a una vicenda reale di cui ha parlato la trasmissione Chi l’ha visto?; La scimmia bianca dei miracoli, che affronta il tema della perdita e della maternità; Pochi avvenimenti felicità assoluta, dedicato all’amore tra Clara e Robert Schumann; Elle, abbecedario esistenziale che racconta il viaggio nell’umano compiuto da una creatura aliena. […]

GIULIO FRAFUSO in Close-Up (24.10.17)
Per voce sola. Un titolo musicale, a suo modo. Senz’altro, un titolo che pone al centro del discorso la voce come portatrice di parola, come veicolo di un linguaggio che comunica, certo, ma al tempo stesso allude. Perché, nella realtà teatrale di Maria Grazia Calandrone, il fonema è, sì, verbo che rimanda ad un preciso significato, ma è al tempo stesso suggestione sonora capace di rinunciare a ogni carica enunciativa per scivolare nell’assoluta libertà di una musica che non ha altro scopo che significare se stessa.
E questo è ampiamente dimostrato sia nelle parti dialettali di lamammapiùbelladelmondo (dove la parola si fa suggestione sonora di un mondo arcaico, pregno del ricordo della tragedia greca, anche a livello tematico) sia in Pochi avvenimenti, felicità assoluta che elegge a protagonista di un lungo, delicato monologo Clara Schumann, moglie del grandissimo Robert, ma musicista e pianista a sua volta.
La musica, si diceva, la grande protagonista occulta del libro di Maria Grazia Calandrone edito dalla casa editrice Chipiùneart. Che è, sottolineiamo, un libro di teatro, ma quasi per accidente, quasi per un beffardo gioco del destino. Perché queste brevi trame che prendono corpo nello spazio spesso privilegiato del monologo (tante volte più interiore che eterodiretto) pur rivelando spesso una notevole qualità scenica (e non a caso trovano un’interprete privilegiata in Sonia Bergamasco), sono prima di tutto palestra di un lungo lavoro sulla parola e sulla voce che in qualche modo se ne deve fare carico.
Una parola densa, spesso quasi materica, tutta fondata sulla gravità del suono e sulla possibilità di proiettarsi nel vuoto, per riempire lo spazio. In questa qualità aggettante, in questo bisogno di riempire, si rintraccia probabilmente la qualità del tutto teatrale del linguaggio della Calandrone. Perché la sua non è parola che resta confinata nello spazio mentale della lettura muta, ma ha bisogno di allargarsi, di sfondare i limiti dell’astrazione per diventare esperienza sensoriale.
Anche per questo, probabilmente, si è sentito il bisogno, nel preparare la composizione di questo piccolo e raffinato libricino (non si arriva a 140 pagine, comprese quelle di cortesia) di superare l’impaccio della mera lettura riempiendo i fogli con un’inesausta aspirazione alla sinestesia. Ed ecco allora che si affacciano a interporsi all’occhio leggente, fotografie e disegni della stessa autrice che sfondano la superficie bidimensionale della pagina in cerca di suggestioni visive. Come pure ecco affiancarsi al libro un bel cd che legge per noi, la parola poetica dell’autrice.
Leggere i quattro testi che compongono Per voce sola, è dunque, esperienza ben più complessa della mera lettura di un reperto di letteratura teatrale. Piuttosto è allargamento di orizzonti in un continuo non accontentarsi perché è il testo stesso a comporsi e ricomporsi in strutture sempre cangianti che vanno dalla linearità prosastica a improvvise isole di versi in un continuo accarezzare il silenzio (e il buio della scena che ci indoviniamo sotto) fino a scivolare nell’estrema linearità del canto (e si pensi in questo senso all’aerea gentilezza di Elle).
Insomma un libro intrigante, questo Per voce sola, in cui si lascia presto il razionale bisogno di capire per concedersi all’abbandono dolce nelle braccia di una poesia giammai consolatoria, estremamente femminile e straordinariamente universale.

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