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Brodskij Iosif, appunti (Casa delle Letterature, 30.11.10)

appunti per un convegno su Iosif Brodskij

Il primo testo è una vera lezione di umiltà. Ovvero uno spiccio fastidio per l’umano e il suo patetismo, e una religiosa ammirazione per la impassibilità perfetta dell’oggetto. Una religiosità pagana, primordiale. Sembra insieme compianto e desiderio dell’umano in prossimità della morte.

Il secondo testo è un capolavoro cristallino intorno al dono equivoco della poesia.

Li abbiamo messi insieme a significare la pochezza nostra, anche dell’uomo poeta. Con la sua garbatissima ironia Brodskij disse che Ogni carriera letteraria inizia da una aspirazione alla santità. Nel processo della creazione risulta, molto spesso, che la vostra penna sia di gran lunga più dotata di talento della vostra anima. Naturalmente il se stesso poeta era il primo verso il quale egli rivolgeva la sua propria celia.

Brodskij sperimentava che l’essere umano tende ad ampliarsi sempre più, che la spinta propulsiva che dapprima vorrebbe riportarlo alla casa, agli affetti – parliamo appunto propriamente di un esule – viene sempre di più sostituita da una sorta di squarcio cosmico nel petto, dalla mano slargatamente aperta del Rilke delle Elegie.

Brodskij voleva farsi coincidere tutto con il tempo, spingere dapprima sopra i corpi dei suoi lettori una sorta di carro armato di parole e, più tardi nella vita, attrarre magneticamente senza alzare la voce i suoi lettori verso una apertura che non si può dire ma semplicemente manifestare con la musica che fanno i versi, suggestionarci come un pifferaio magico con la musica dello spalancamento.

I versi, scriveva, non sono che il mezzo di trasporto della poesia.

Trasporto verso una ampiezza di sguardo che – questa, perdonatemi, è la mia parola-ossessione – ci fa pieni di “compassione”. Mi permetto di usare di me perché lo stesso Brodskij, nel suo resoconto poetico del 1972, parlava della perdita come del principio di eguaglianza tra Dio e i mortali (ecco perché alla fine della descrizione degli impassibili oggetti parla la voce di Maria, la donna che si è fatta oggetto e terra calpestabile per il passo di Dio).

Dunque Brodskij dilata il principio di uguaglianza tra la mortalità e il divino emblema della immortalità. In questo ordine di pensiero viene alla mente la grandissima Lispector, la sua non-storia di GH, donna-cosa presa dalla passione per la infernale neutralità del Dio che ha scovato, nello sgabuzzino di casa, dentro la morte ottusamente indifferente, infinitamente povera, di una blatta. In quella neutra inerzia naturale la GHdi Clarice Lispector trova Dio.

E allora se uomini e cose sono uguali e se uomini e Dio sono uguali, spingiamoci fin qui: Dio è la cosa e la cosa è Dio.

Tutti i grandi parlano di questa eguaglianza radicale, della equanimità dei viventi e dei non vivi (non più, non ancora vivi). Così anche Brodskij. L’arte ripete da millenni e nelle sue mille forme questa cosa divina: tu sei Dio e sei una cosa, sei talmente una cosa da possedere perfettamente e inesorabilmente la perfettissima inerzia di Dio, la mancanza di moto del motore primo.

L’amor che move il sole e l’altre stelle di Dante: perfettamente immobile, perfettamente umano.

i testi

da NATURA MORTA, 1971 (“Anterem”, traduzione di Elena Corsino)

                                                           Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
                                                             Cesare Pavese
6
Da qualche tempo
dormo in piena luce.
Evidentemente, la morte
mi mette alla prova,
 
accostandomi alla bocca
uno specchio anche se respiro,
– così come io resisto
al non-essere nella luce.
 
Immobile. I fianchi
freddi come di ghiaccio.
L’azzurro del sistema
venoso che tende al marmo.
 
7
A sorpresa, con la somma
dei suoi angoli la cosa
ricade oltre il nostro
mondo di parole.
 
La cosa non ha un suo verso.
E non si muove. È un’assurdità.
La cosa è lo spazio oltre
il quale non c’è la cosa.
 
La cosa la si può frantumare,
rompere, bruciare, sventrare.
Abbandonare. Non per questo
la cosa urla: «Va’ al diavolo!»
 
8
L’albero. L’ombra. La terra
sotto l’albero per le radici.
Iniziali incerte di nomi.
Argilla. Teoria di pietre.
 
Radici. Il loro intreccio.
Masso, il cui peso specifico
libera la materia da un dato
sistema di vincoli.
 
È immobile. Non lo sposti
né lo porti via. L’ombra.
L’uomo sta nell’ombra
quale pesce nella rete.
 
9
La cosa. Il colore bruno
della cosa. Il cui perimetro
è spento. Si fa buio. Non c’è
nient’altro. Natura morta.
 
Verrà la morte e vedrà
un corpo nella cui levigatezza,
il giungere della morte,
come di una donna, si specchia.
 
Non ha senso: lo scheletro,
la falce, il teschio. Falsità.
«Verrà la morte e avrà
i tuoi occhi».
 
10
La madre chiede al Cristo:
– Tu sei mio figlio
o Dio? Tu inchiodato alla croce.
Come ritornare a casa?
 
Come attraversare la soglia,
senza aver saputo né stabilito:
se sei mio figlio o Dio?
Ossia morente o vivo?
 
Le risponde:
– Morente o vivo,
non fa differenza, donna.
Figlio o Dio, sono tuo.
 
Colloquio con un celeste, 1970 da Fermata nel deserto (a cura di G. Buttafava, Mondadori, Milano 1979)
 
Qui sulla terra dove
cadevo in estasi o in eresia
dove, scaldandomi nei ricordi degli altri
vivevo come un ratto nella cenere
dove, peggio d’un topo
rodevo il dizionario in corpo otto
di una lingua che a me è materna e a te straniera
e dove, grazie a te, fisso dall’alto
me stesso, non scorgendo
in nessun modo un luogo da toccare
con il verbo, non dominando più la gola,
soffocando per un cenno del capo
d’una tonitruante
carogna, umettandomi le labbra,
invece di castalio umore, di saliva,
come la torre di Pisa inclinandomi
sulla carta, di notte, io ti rendo il tuo dono:
non l’ho nascosto, non l’ho sperperato
in festini, e se l’anima avesse un profilo,
tu vedresti che essa è solo un calco
del dono doloroso,
che più nulla possiede e che è rivolta
verso di te, insieme al tuo dono.

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