Policastro Gilda, Esercizi di vita pratica (Corriere della Sera, 30.5.17)
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su esercizi di vita pratica di Gilda Policastro, ovvero la poesia più le strategie del virtuale e senza il fastidio dell’interiorità
In esercizi di vita pratica di Gilda Policastro la così detta realtà è filtrata dalla cultura (con tanto di nomi, cognomi e relative correnti) e dall’intelligenza, la presa diretta sul mondo avviene per lacerti, che vengono composti – o meglio, incastonati – dentro strutture di riferimento del pensiero, con le quali l’autrice gioca come un giocoliere ironico. La poesia di Policastro mi ha sempre fatto venire in mente un muro (per quanto aereo) con inserti di cocci antichi: la realtà, le frasi, sono reperti, che vengono impastati alla materia di un pensiero non più innocente, smagato, che vuole proprio metterci di fronte – o meglio, comporre sulla scena della pagina – la postura di chi mescola cose con cose apparentemente l’una all’altra inappartenenti.
Ma Policastro non è Sanguineti e questi anni non sono il Novecento, è passato moltissimo tempo, molto più tempo del tempo cronologico, tra la mischia parlante e ancora esplosiva dell’esperienza sanguinetiana e noi – e il tempo trascorso ha velato le parole di malinconia, di un senso di smarrimento: abbiamo perso violenza perché abbiamo perso fiducia, non sappiamo più fare la voce grossa perché crediamo di non parlare al mondo. E allora, recitiamo litanie strane nella nostra porzione di mondo, raccogliamo esperienza di realtà, la filtriamo e la restituiamo non più oggettiva ma contaminata dalla nostra esperienza corporale: bellissimo, a questo proposito, il testo 8, che riguarda il corpo e riflette la nostra materia, definita fin dalla prima riga “tutto” – e riflette su quanto questo “tutto” sia vero e inafferrabile; condizione, quest’ultima, sottolineata dall’unica immagine (Untitled di Sabrina Ragucci) presente nel libro, che mostra un corpo femminile di spalle, stappato come si stappa una lattina di birra, una vasca da bagno o una piscina gonfiabile. Il corpo presenta insomma un’apertura innaturale – ma non letale.
Segue un piccolo catalogo di frasi ascoltate in città che, lasciate così sole sulla pagina, procurano un effetto tra esilarante e commovente e collocano, nel grande bianco che le circonda, il popolo in movimento dal quale sono venute. O meglio, dal quale sono state prelevate, asportate a tesi, con nitore chirurgico: sembrano piccole steli di 2001 Odissea nello spazio; ma bianche, non nere, lucidi monoliti di frasi venute a noi da un mondo vivente come da un altro mondo, utilizzate con effetto comico e straniante, perché raccontano – per picchi, per emersioni o per ritagli sarcastici – un popolo simpatico, disincantato e volontariamente superficiale, una fetta di popolo da palestra e da discoteca, una percentuale di Roma nella quale il poeta s’immerge, ma a distanza, come chi debba fare un carotaggio, un esperimento di simbiosi osservata nel mentre la si vive.
Insomma, non sto facendo altro che dire con molte parole quello che è scritto nel titolo, tutto minuscolo come il nome dell’autrice, in stile Prufrock spa: esercizi di vita pratica. Perché davvero di esercizi si tratta, di esercizi propriamente sportivi di vita mondana. Finora.
Poi, nella terza sezione, entriamo nel vivo della materia pensante, addirittura grigia. Allora, lo dico meglio: della materia pensante che viene pensata e anche polemizzata, perché qui si scrive anche del micromondo della poesia e dei suoi abitanti e si scrive anche dei sentimenti aciduli e antipatici che attraversano l’intimo del singolo inserito in un gruppo (“mentre tu baci, io sbadaban, spacco”), dell’io incluso che vorrebbe autoescludersi ma invece addirittura supplica il mondo, con improvviso ritmo rosselliano e con Zanzotto, di “esistere buonamente”, ancora incerto tra riso e pietà, come è apparso chiarissimo nella sezione Nuove inattuali e spingendosi ad affrontare il megatema del comportamento etico, del bene e del male, esibendo in questo caso un senso pratico spiccio e pieno di buon senso, quasi facendo il controcanto a se stessa poeta, iniettandosi da sola l’antiveleno al veleno del lirico, casomai si vantasse di soggiacere non visto.
Insomma, Policastro piace non sforzandosi di piacere: è uno stile. Il suo libro si legge con la soddisfazione di sentirsi in una casa paradossale, in un puzzle (per adoperare il primo titolo dei suoi ultimi Tre esercizi passepartout – bellissimo il secondo, che ha il pudore di criptare il nome del padre, rendendolo così tanto più evidente: come un ufo, un geroglifico, un oggetto sconosciuto, ancora tutto da rimettere in ordine e da decifrare) di elementi poetici, filosofici, quotidiani che però compongono la realtà come la conosciamo, il mondo al quale siamo abituati, fotografa – è il caso di dirlo: le frasi isolate equivalgono a scatti di Instagram – la mischia di reale e poetico che già vediamo nel mondo e abbiamo visto in poesia, ma aggiungendo il virtuale ultimo nostro, il linguaggio da finto discorso diretto, l’istantaneità e la confusione di piani che sono virtù e strategia del virtuale. esercizi di vita pratica è anche un libro dove si ride un bel po’, pure di noi e del nostro senso morale, se “fai il bene e sembri il postal market della sfiga, sfogli e ne trovi un’altra e un’altra”. L’intero libro è una descrizione, intelligente nella sua frammentarietà mimetica del reale, di quanto ci raggiunge mentre abitiamo il mondo, inclusi bagliori sulle nostre stesse profondità, neanche tanto indagate, bensì corrotte da una superficie ben più interessante, nel suo vorticare e nel suo essere intercambiabile, anonima – addirittura fino a dichiarare uguaglianza tra il malato al quale siamo affezionati e che andiamo a trovare e il suo vicino di letto, in uno sguardo paradossalmente ampio e umano che ci fa sentire a nostro agio, a casa, nel mondo noto del quale siamo “pratici” anche noi, noi pure equamente suddivisi tra riso e pena.
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