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Nobili Nella (Poesia n. 327, 6.17)

Figlia di Giuseppe, muratore emigrato in Algeria, e di Cesira, sarta a giornata, Nella Nobili lavora come apprendista fin dalle scuole elementari, prima in una piccola impresa di astucci per orafi, poi in una fabbrica di ceramiche. A quattordici anni, ottenuto il libretto di lavoro, viene assunta nella vetreria come soffiatrice di fiale per medicinali. In quarta elementare, però, durante una lettura scolastica ad alta voce, il seme della poesia cade in lei. E deflagra: Nella consuma le sue notti leggendo, in maniera avida e disorganica: Il conte di Montecristo, poi l’intera biblioteca per ragazzi della Salani e infine un’antologia di versi di Carducci, proprio mentre, fra i dodici ed i quattordici anni, s’innamora e comincia a sentire salire da sé, ancora informulato, il canto della poesia. Andando al lavoro, come dichiara in una delle sue rare interviste, in quegli anni sente “una musica leggera come il ronzio di un’ape”: “in certi momenti, sentivo che quella musica saliva di tono, avvertivo un ritmo  che mi commuoveva, ma non sapevo tradurlo in parole”.

Eccoli, gli anni irripetibili, matti e disperatissimi, nei quali il poeta avverte la vocazione, ma la sua voce non è ancora all’altezza dello strumento e allora prova e riprova, strappa, scarta, si accanisce, batte i pugni, s’infervora, lotta e grida, litiga – con se stesso e col foglio – per strappare alla superficie bidimensionale della pagina la profondità che contiene in sé e sente di dover restituire alla terra.

Quegli anni, che per Nella sono di vocazione alla poesia e di lavoro in fabbrica, sono purtroppo anche anni di guerra: Nella e la sorella si offrono per il recupero dei corpi dopo i bombardamenti. Tra questi, corpi di bambini. Non reggono allo strazio troppo a lungo, si trasferiscono all’accoglienza dei soldati feriti che arrivano ai centri di smistamento. Non hanno competenze se non umane, fanno cose elementari: offrono un bicchier d’acqua, sorridono. Intanto Nella lavora come inserviente in ospedale, dove le vengono garantiti pasti quotidiani e dove è protetta dai bombardamenti. A guerra finita, torna nella vetreria di Via Zamboni, a Bologna, e da questa esperienza nasceranno in futuro I quaderni della fabbrica (1948-1950), brevi prose riprese ed ampliate poi in francese nelle raccolta la Jeune Fille à l’usine.

Gli anni della fabbrica, succeduti brutalmente all’infanzia e alla scuola elementare, segnano duramente la poetessa, ma, nello stesso tempo, la rendono sensibile alla miseria o “diversità altrui: fisica, etnica, di orientamento sessuale. L’Italia degli anni Cinquanta le va stretta, emigra nella più evoluta Francia, dove lavora per trent’anni come artigiana indipendente, ottenendo una certa agiatezza.

La professoressa Marie-José Tramuta ha ricevuto queste preziose notizie da Edith Zha, compagna di Nella dal 1977. Edith e Nella scrivono anche un libro intitolato Les Femmes et l’amour homosexuel (Hachette, 1979), una raccolta di interviste a lavoratrici che testimoniano la propria diversità, un documento civile e politico in senso lato. Nella Nobili era di sinistra, ma già all’inizio degli anni Cinquanta aveva assunto una posizione critica nei confronti dello stalinismo.

Scrivendo di Nella Nobili non possono non venire alla mente le parole tratte dal libro di Jeannette Winterson Perché essere felice quando puoi essere normale? Anch’ella in cerca della propria identità sessuale, Winterson adolescente ricevette dalla madre la risposta convenzionale con la quale intitolerà il suo romanzo. E, se non fu la madre a sostenerla, la sostennero i versi di Eliot, come lei stessa racconta: “quando sento dire che la poesia è un lusso, o un’opzione, un prodotto riservato alla classe media colta, che non dovrebbe essere letta a scuola perché non è essenziale, tutte le cose stupide e bizzarre che si dicono sulla poesia e sul posto che occupa nelle nostre vite, mi viene il sospetto che la gente che parla così abbia avuto la vita facile. Una vita dura ha bisogno di una lingua dura, perché duro è il linguaggio della poesia. Ecco cosa ci offre la letteratura: una lingua che ha il potere di dire le cose come stanno. Non è un luogo dove nascondersi. È un luogo dove ritrovarsi”.

Con questo limpido brano Winterson spazza via il trito equivoco sulla letteratura nel quale, ben prima di Adorno, cade anche Sartre, che, nel 1948, poco prima che Nella Nobili prenda casa a Parigi, pubblica il saggio Qu’est-ce que la littérature?, dove attacca i poeti, accusandoli di praticare un genere non engagée, fuori dal reale. Sartre tratta la poesia come se la poesia fosse un’astratta ricerca di bellezza senza tempo né luogo dove rifugiarsi snobbando col naso insù la trista faccenda umana, abitando un irreale, angelico, metafisico, in sé essente (dunque assente), magnifico “altrove” e trascurando dunque l’impegno civile che i poeti hanno, per il semplice fatto di essere profondi interpreti della realtà. Sappiamo che, per essere poeti, non basta guardare oltre le cose del mondo, come non basta limitarsi a vedere le cose del mondo, per cambiare le cose del mondo. Ma perdoniamo Sartre (come perdoniamo Adorno, che confuse la poesia con l’estetizzazione del dolore), storicizzando le sue parole – anzi, le parole di entrambi i filosofi, sicuramente spinti da un empito etico e soprattutto sconvolti dall’esperienza traumatica della guerra.

Ma proviamo a comprendere quale sia il legame di Nella Nobili con la realtà, visto che a Parigi, concluso il dopoguerra, negli anni Sessanta e Settanta, si agitava pure il mitico Maggio 1968 e la poesia di Nella non sembra esserne sfiorata. Anche i suoi Quaderni della fabbrica sono testi “sentimentali”, introspettivi, nei quali lo sguardo guarda oltre le cose, dietro i volti delle persone e al di là dell’evento: Nella vive la fabbrica osservando i moti dell’animo di una vicina di lavoro intensa e oscura, come leggiamo in La ragazza dagli occhi pieni di buio.

Diremmo Nella Nobili un fenomeno contrario a Szymborska: tanto Szymborska è ironica e attinente alla destabilizzante casualità del reale, tanto Nobili è tragica e profetica, indagatrice delle profondità degli uomini e dell’oltre metafisico dei luoghi. In una delle rarissime fotografie che la ritraggono, Nella ci pare un’immaginetta addirittura ieratica, con le pupille che non toccano la palpebra inferiore, rivolte verso l’alto, in una vaga somiglianza a Teresa di Liesieux: un viso tondeggiante per una sua pienezza ancora infantile, ma fiero e animato da un sorriso leggero, distaccato – preso dall’aria azzurra di un “altrove”. E la parola “azzurro”, infatti, insiste molto nelle sue poesie. Anche Maria Luisa Spaziani che, colpita dalla poesia anticonvenzionale di Nella, andò a cercare l’autrice fino a Parigi, ne scrive così: “Una bellezza fosca illuminata dall’ingenuità ancora infantile dello sguardo. Senza sorriso, di poche parole. Vestita troppo poveramente, con uno scialletto stinto sulle spalle”. Nella era anticonvenzionale anche nella vita. Sobria, quasi povera, agli occhi della mondanissima Maria Luisa.

Adoperando la metafora del corpo sociale, possiamo affermare che i poeti come Nobili siano le fibre che si mettono al lavoro per riformare i tessuti dopo un trauma. Inflitto non solo al linguaggio, naturalmente, poiché la parola è emanazione diretta del corpo sociale che la pronuncia, ne rivela le viscere e i retropensieri, tutto l’inconfessabile e il non detto. Vegliare sul linguaggio e ricostruire il linguaggio – dunque il senso – deviato da una violenza come quella della guerra, significa ricostruire la salute del corpo sociale che lo esprime. Il linguaggio è il respiro del corpo sociale, la sua espressione più nitida e nello stesso tempo più imprendibile. Averne cura è il compito dei poeti come Nobili, che sono in grado di sopportare non solo una mancanza originaria, ma anche una mancanza di senso originario. Questo è un compito etico e antico: anche quando non parlano in diretta dal mondo, anche se la loro poesia non è accusa e denuncia, mettono davanti ai nostri occhi il mondo come dovrebbe essere, alzano gli stendardi di quel mondo. Sono le sentinelle, stanno a guardia della nostra caduta. Ci tengono, con le loro mani materne fatte di parole, perché non cadiamo nell’idiozia.

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