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Lievito Madre – Le ragazze del secolo scorso (CorSera, 3.11.17)

La (loro) libertà che anticipa la (nostra) libertà. Ritratti di donne non convenzionali

leggi in “Corriere della Sera” (3.11.17)

Premesso che non amo parlare o sentir parlare di “donne” come di una specie protetta – e premesso che so di dovere questa libertà a donne grandi e belle come quelle che stiamo per raccontare, so anche di essere uscita rinvigorita e ravvivata dalla visione di “Lievito Madre”, riconoscendo la gioia di uno spettacolo brillante, di rara intelligenza, anticonformismo e ironia.

Il documentario racconta quindici donne nate entro il primo cinquantennio del secolo scorso. Le vite raccontate sono diversissime una dall’altra: da quella dell’imprenditrice Giulia Maria Crespi a quella della mondina Esterina Respizzi, da quella di Nada, cantante di fama, a quella di Giovanna Tedde, contadina. E poi Dacia Maraini, Adele Cambria, Natalia Aspesi, Lea Vergine, Cecilia Mangini, Giovanna Marini, Emma Bonino, Piera Degli Esposti, Luciana Castellina, Benedetta Barzini, Inge Feltrinelli. Critiche d’arte, cantanti, politiche, modelle, lavoratrici stagionali, attrici, scrittrici, registe: il bellissimo mazzo di “operaie regine”, come direbbe Giorgio Caproni di ciascuna di loro, viene deposto con delicatezza e discrezione nelle nostre intelligenze da Concita De Gregorio ed Esmeralda Calabria. Altre due donne, dunque, che pongono domande spicce e vive, da donna a donna quando le donne si guardano negli occhi.

Ma c’è di più, ed è che queste vite guardano e riguardano tanto anche noi, venute un po’ dopo, noi che usciamo dalla sala provando una profonda gratitudine per le donne che ci hanno precedute con tanta intelligenza, che hanno capito, prima di noi e per noi, come essere madri, intellettuali, amanti, artiste – pur continuando ad abitare un corpo solo.

E hanno naturalmente lavorato anche a favore degli uomini: il cambiamento delle donne ha cambiato anche loro. Per i più intelligenti e curiosi è stato un inatteso arricchimento. Per gli altri, uno stato di fatto al quale lentamente abituarsi.

Le protagoniste di “Lievito Madre” (bellissimo titolo-sintesi, significativo del fermento che tanta intelligenza, forza di volontà e autodeterminazione hanno portato nel nostro addormentato paese) sono donne che hanno reinventato il modo di stare al mondo delle donne: ciascuna in sé e per sé, ma soprattutto procedendo insieme, hanno fatto spazio a se stesse e alle altre, in un ideale lavorio comune, collettivo, il cui scopo era un riconoscimento sociale e intellettuale all’epoca niente affatto scontato.

Per esempio Cecilia Mangini, che nel 1961 passa mesi sotto Ponte Mammolo per girare “La canta delle marane”, da Ragazzi di vita di Pasolini – o Lea Vergine, che trascorre una vita scrivendo di arte contemporanea, fino a scoprire che L’arte non è faccenda di persone perbene. Certamente, per prima cosa, tutte loro hanno dovuto abbattere pregiudizi e stereotipi sul femminile o sulla declinazione femminile di certi mestieri.

Eppure, nonostante il lavoro millimetrico e quotidiano di decostruzione di modelli di donna troppi stretti per l’anima e per la realtà di ciascuna, nessuna di loro è caduta nella trappola della retorica dell’antiretorica, perché ciascuna di loro ha fatto un percorso reale, profondo, biologico, di consapevolezza. Adopero con coscienza la parola “biologico”, perché, naturalmente, il primo confronto di tutte è stato con il proprio genere, dunque con il proprio corpo: è stato necessario mettersi “davanti” e in relazione con il proprio corpo, sviluppando di conseguenza un insieme di affetti contraddittori: dalla rabbia preventiva (Castellina) allo stupore per la propria bellezza, tanto ignorata quanto evidente (Vergine), da una specie di sereno dislocamento (Nada) al bruciare quietamente nell’istante puro e chiaro del tutto-presente (Aspesi).

Un esempio ci aiuta a comprendere la laboriosità dell’impresa evolutiva, spesso avvenuta per tappe: Luciana Castellina ammette di essere caduta nell’iniziale equivoco di credere di doversi comportare come un maschio, per ottenere il rispetto intellettuale. Ma poi no, poi ha compreso di dover contribuire al mondo con la propria differenza. Che senso avrebbe replicare un modello già esistente?, dev’essersi detta: quello che aggiunge vita (femminile) a vita (maschile) è il percorso soggettivo e dunque originale e unico di ogni creatura.

Anche le donne che intervistano pongono domande pericolose, perché semplici e vere: viene chiesto di ricordare l’infanzia, la vita intera, viene chiesto di ricordare il futuro, l’idea passata e presente di futuro. Nessuna si sottrae, nessuna manifesta falsi pudori, tutte rispondono generosamente e intimamente: sono donne abituate alla riflessione e alla riscrittura di sé, dunque amano mettersi in gioco, non temono – o non più – di venire giudicate, si prendono il lusso di dire la verità, anche quando le verità sono scomode come quella espressa da Benedetta Barzini, quando definisce la famiglia “un insieme di sconosciuti”, o sono vivamente sincere come quella di Inge Feltrinelli, che dichiara di essere stata “una pessima madre, però divertente”.

Il tempo che queste donne hanno impiegato per inventare un equilibrio nuovo è tempo che hanno regalato a noi e alle nostre vite. Noi partiamo dalle loro conquiste e possiamo anche scoprire che alcune cose che per quelle vite sono state fondamentali, nelle nostre lo sono meno, o non più. Facciamo l’esempio della scrittura: Dacia Maraini racconta che, quando le donne iniziavano a veder pubblicato quello che scrivevano, sentivano anche il bisogno di scrollarsi di dosso la veste tremebonda e sentimentale che veniva attribuita alle signore con la penna in mano: essere definita “scrittrice” o “poetessa” evocava scrittoi odorosi di violetta e bagnati di lacrime. Eppure, c’erano già state le acutissime ondate dell’intelligenza analitica di Virginia Woolf, la ribellione e il rovesciamento della visione di mondo in Emily Dickinson, l’ardore incontenibile e autocritico di Saffo!, per pescare a caso tra i nomi più noti. Niente da fare, i ramoscelli in fiore e le facili rime in cuore-amore continuavano a sembrare proprie del femminile. Le donne che scrivevano preferivano dunque dirsi “scrittore”, rinunciando alla peculiarità di genere. È stata una rinuncia in quegli anni socialmente indispensabile e forse oggi non più necessaria: proprio grazie alla qualità dimostrata nei fatti dalla scrittura di donne come Dacia Maraini, Elsa Morante, Amelia Rosselli, le scrittrici e le poetesse di oggi non sentono forse più il bisogno di parlare di sé al maschile. Uscite dall’equivoco del sentimentalismo, forse possiamo concederci la libertà di riassumere in una sola parola il nostro corpo e il nostro mestiere, definirci scrittrici e poetesse senza che nella mente di chi legge si formi la figura di una signorinella instabilmente appesa ai pur saldi tendaggi del salotto borghese. Anche perché il mal d’amore delle donne è un male forte e crudo, non il decorativo piagnisteo che piaceva e dispiaceva agli inorgogliti amanti del secolo scorso.

Allora, chiudiamo ringraziando questo coro di voci tutte diverse e le due direttrici d’orchestra, che hanno organizzato tessitura e impianto, perché l’esempio della ricerca della libertà aiuta gli uomini e le donne che siamo a essere, appunto, quello che siamo. Qualunque cosa siamo.

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