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Riccardo va all’inferno (CorSera, 30.11.17)

Il potere secondo Roberta Torre (Nella terra dell’oltre)

Commento al perturbante film di Roberta Torre sul Riccardo III di Shakespeare, ovvero sul tragico scontento del potere, con Sonia Bergamasco trasfigurata dalla maschera di madre anaffettiva e un magnifico Massimo Ranieri, disperato e spietato come chi vuol essere re

leggi in “Corriere della Sera” (30.11.17)

Quando sono uscita dal cinema dopo aver visto Riccardo va all’inferno di Roberta Torre volevo tornare subito dentro e rivederlo daccapo, tanto il film è carico di bellezza, crudeltà e immaginazione: si torna all’aperto con la certezza di aver perso qualche dettaglio di quel continuo fuoco d’artificio, di quelle inquadrature traboccanti, esorbitanti, che spesso sono vere opere d’arte, barocca e dunque post-postmoderna. Il film compie infatti una parabola espressiva dal barocco rutilante e intossicato dal fumo delle periferie dell’inizio, all’essenzialità iconica e granitica della perturbante pietà elettrica che appare verso la fine – fino al sorriso bianco di Riccardo, che ricorda l’Accattone morente di Pasolini, quando finalmente sorride e sospira “mo’ sto bene”.

Roberta Torre segue con fedeltà la mano armata che Shakespeare affonda nel cuore umano, ma, se possibile, spinge ancora più a fondo la lama nella pochezza del potere. Perché è passato tanto tempo dal tempo dei re, il potere non è neanche più smagliante e fascinoso, non è neanche più elegantemente sadico, è il potere tossico e smargiasso dello spaccio a Tiburtino Terzo e i personaggi sono cattivi e basta, senza che se ne indaghi la ragione.

Tranne Riccardo, il bambino che non è stato amato.

Per il tema del potere unito all’inferno, alla sgradevolezza e alla morte, per la discesa tra le bave e l’orrido dell’umano, Riccardo ricorda il superamento della misura, il grottesco filosofico del Faust di Sokurov: Roberta Torre è andata oltre il suo grottesco precedente, puro e goliardico, di Tano da morire, dove la morte era ancora un’opera buffa, e ha composto un’opera drammatica sulla realtà, nella quale Shakespeare viene traslocato – e viene offerto al gioiello trasparente, commosso e tagliente della sua poesia il palcoscenico di un presente più avido e più arido, dove “l’inverno del nostro scontento” diventa un musical sghembo, famelico, carnale e profondamente malinconico.

La maschera è ancora una volta necessaria, per comporre un’opera politica sulla realtà.

Anche gli attori, sostenuti e nascosti dalla nudità della maschera, sono andati un lungo passo oltre se stessi. Due per tutti: Sonia Bergamasco, una magnifica Regina Madre, ebete e indolente nella sua irresponsabile ferocia, arriva a saper recitare con le pieghe del naso e della gola, riesce a essere toccante nella sua radiosa, sovraesposta, bellissima innocenza e, nello stesso tempo, covare lo sguardo cupo di un’assassina, muoversi come avesse slegati o irrigiditi i legamenti del corpo, meditare l’inferno dietro l’impeccabilità della forma.

Lo stesso fa Massimo Ranieri, un Riccardo calvo e storpio, un uomo disumano che chiede riscatto al potere perché, infine, ha rinunciato a essere amato, ma ancora resiste a fare della propria vita un relitto psichiatrico, lotta come una cellula cieca, per la sopravvivenza – e il volto bello e scavato di Ranieri è una perfetta, mobilissima, inclusiva sintesi tra spietatezza e disperazione.

Gli attori si sono fidati, giustamente, dell’intuizione visionaria della regista, hanno compreso di essere in mani forti abbastanza per poter esplorare un altro centimetro del bene e del male che siamo. Roberta Torre osa molto: Riccardo va all’inferno è un film dove si vede moltissimo, dove lo sguardo è continuamente bombardato da immagini notevolissime, colorate e rumorose ma, nello stesso tempo, si vede poco, la macchina cancella i volti con la velocità della ripresa, o le sembianze vengono deformate dalla nebbia della memoria, slittano, scivolano via, s’intubano e sono ingoiate in una zona dove hanno abitato tutti, un mondo parallelo dove si può entrare solo se si ha coraggio. Per fortuna, lo hanno avuto. Tutti.

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