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Mariangela Gualtieri, “Giuramenti” (CorSera, 24.3.18)

GUARDA COME RIDO (“Corriere della Sera”, 24.3.18)
poesia della rivolta nelle parole e nei corpi del Teatro Valdoca

“Guarda come rido, vedi? Viva sembro.” Con queste parole, pronunciate da un coro che sale intensamente di volume da dodici corpi seminudi, si chiude Giuramenti, il nuovo spettacolo di Mariangela Gualtieri e Cesare Ronconi.

Si chiude con un attacco alla morte per insensibilità – dunque alla maschera contemporanea, che ci è parzialmente necessaria, stando anche alle parole di Ian Mc Ewan sulla quantità di compassione che siamo in grado di sopportare, in giorni pieni come i nostri del rosario di sangue che quotidianamente ci avvelena.

La voce del poeta, che vorrebbe cantare libera, sciogliersi in una lucida fusione cosmica e protozoica, viene afferrata al volo e incanalata altrove, tra le pieghe rotte e insanguinate del mondo, dall’altra voce in sé: la voce del dovere umano e dell’istinto altrettanto vitale della fratellanza, che ci torce la faccia perché guardiamo in basso, a questa terra che bisogna amare.

Rivoluzione, adesso, è amare ostinatamente, caparbiamente, ottusamente il mondo.

Così, Gualtieri fa i nomi di morti e feriti, nel testo più politico e vicino al mondo che abbia mai scritto. Scrive: “Falla finita con la luna / e le stelle – guarda giù, i tuoi, / questa rovina di donna di uomo. // Questo sanguinare del mondo / guardala bene questa Salò”. La cosiddetta realtà chiama i poeti, squarcia loro gli occhi, li esorta a esortare, a chiedere empatia e rivoluzione: “rivolta” “per i fratelli o sorelle in catene” che masticano un cibo senza nome, “rivolta”, per “uscire da questo tiepido consenso / e dire no”: anche se il “no” ci fa male, ci causa il dolore della frattura, adesso occorre “spazzare via / la calma apparente della generazione mia”.

“Guarda – ti dico”, scrive dunque Mariangela Gualtieri, evocando l’esortazione di Pound: “Strappa da te la vanità – ti dico – strappala!”: “Guarda ciò che non vuoi”, “Non fare finta che sia tutto / santo e buono”

Gualtieri adesso testimonia e denuncia la violenza, testimonia e denuncia l’ormai esanime capitalismo, che però è ancora capace di costringerci a vivere lontani dal nucleo sensitivo e animale che dorme all’interno dei nostri corpi, dove apparentemente custodiamo solo stomaco e intestini e invece abita questo “qualcosa” sconosciuto e incontrollabile, piccolo e denso come pugno, che “dorme sempre e poi inaspettato / si sveglia e vive”.

“Conosciamo noi stessi solo fin dove / siamo stati messi alla prova. /Ve lo dico / dal mio cuore sconosciuto.”, scrive anche Szymborska.

Mariangela Gualtieri ha parole durissime, infatti, anche verso la gabbia dell’io, “il micidiale pronome. Il ladro, il divoratore”, chiama lettori e spettatori a una coabitazione intima con la natura, chiama a chiedere aiuto alla fermezza e alla concentrazione delle rocce e degli alberi, a ricordare che non sono soltanto le parole a portare nel mondo solidità e intelletto, sono anche le cose esistenti e mobili e rocciose, che stanno nel silenzio originario o nelle mille voci del vento, e ci dicono cose che dobbiamo imparare di nuovo ad ascoltare.

Sulla scena si muovono dodici corpi, straordinariamente coordinati e coesi, di attori che sanno cantare, che sono acrobati e danzatori e che dicono i testi come dicono i testi i poeti, asciuttamente, senza l’enfasi di chi vuole far scena di sé. Dicono in coro e dicono da soli e il loro affiatamento è il risultato di una convivenza di tre mesi in un bosco, dove hanno assecondato, nella vita reale, la fisica primordiale che adesso riverbera nello spettacolo e nella sua bellissima, energica messa in scena: il sentimento animistico di nessuna predominanza umana. Mariangela Gualtieri parla infatti a nome della specie, una specie che da “zampe e musi” senza parola né pensiero è tuttora la ragazza che “non mollo una briciola neppure”. Nel fondo di noi stessi, avverte Gualtieri, siamo le “zampe e musi” che eravamo solo “un attimo fa”, lo spaventato branco che eravamo, terrorizzato dal “tonfo d’un ignoto tutto intero”.

E allora, ciascuno faccia “il mio fare, / quello che mi tocca”. Nel caso dei poeti, scriva, perché quelli che hanno bisogno di parole delle quali nutrirsi escano cambiati da quel rito comune, tornino a essere la mano slargatamente aperta di Rilke, l’”immensa slabbratura” di Gualtieri.

Perché – e questa è l’intuizione, il “fuoco centrale” dello spettacolo – noi facciamo agli altri quello che siamo.

Lo sappiamo: conoscere un altro nella sua radice, significa avere la generosità di sparire, di dedicargli il tratto di tempo della nostra vita necessario a vederlo, a notare l’esistenza di un altro che non è noi.

E allora, quando la piccola amazzone dice “Fatemi / quello che siete”, ci costringe a pensare a cosa siamo, come nella performance Rhythm 0 del 1974, dove Marina Abramović mette il suo corpo a disposizione degli spettatori, offrendo loro armi e strumenti di piacere che possono essere usati su di lei, e finisce per trovarsi in mano una pistola carica e, attorno, un gruppo di sconosciuti che fa cordone per difenderla.

Ognuno pensa dell’altro e fa all’altro precisamente e solo quel che egli stesso è. Il bene e il male che è. E, soprattutto, l’inconsapevole pregiudizio, cioè l’inconsapevole paura che egli stesso è.

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