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Affari italiani 17.10.19

intervista di Ernesto Vergani

Si intitola Giardino della gioia (Lo Specchio-Mondadori) l’ultima raccolta in versi di Maria Grazia Calandrone. La poetessa, drammaturga e giornalista romana ci restituisce un’opera articolata, una sorta di sintesi della sua poetica capace di spaziare dal verso alla prosa. Allo stesso modo assistiamo a una scrittura che sa declinare il privato in collettivo, forte di un impegno che si focalizza su temi precisi: la complessità dell’amore, la molteplicità dell’io, soprattutto «ricordare che siamo un impasto tragicomico di bene e di male», dice Calandrone. Un tema, quest’ultimo, che detta anche il passo della sezione più originale, sostenuta da una ordinaria e tragica cronaca quotidiana, dove il registro diventa cronachistico e a parlare sono le voci di omicidi, criminali, artefici del male e di una deriva che talvolta – paradossalmente – nasce da un bene.

Il suo è un libro dedicato alla gioia, ma per niente consolatorio, mette infatti in evidenza quanto sia difficile “esporsi” anche alla felicità. Quali sono i rischi dell’amore?

Innumerevoli, limitandoci al dettagliato elenco scritto nel libro: mia figlia, di nove anni, sostiene che il rischio sia l’ottimismo eccessivo; Dante, che il rischio sia il venire fraintesi; Sabine Spielrein che il pericolo sia la perdita dell’io.

Io credo che il pericolo dell’amore coincida con la libertà radicale di perdere finalmente sé stessi. Finalmente e spaventosamente. Perdere sé stessi al punto di non riconoscere più i propri gesti e le proprie parole. Le lettere d’amore sono ridicole, scrive Pessoa. Tutti noi, innamorati, facciamo e diciamo cose ridicole, che però sono la nostra salvezza dall’abitudine e dall’asfissia dell’io.

L’amore è un terremoto che non ci lascia quelli che eravamo prima di essere travolti. Ma quella che resta in piedi dopo l’uragano è la parte più vera di noi.

È molto originale come nella prima parte, la dimensione più affettiva – a tratti lirica – a un certo punto converga nelle sezioni successive dove si entra frontalmente in certa tragica e spietata contemporaneità. Qual è la funzione della poesia oggi?

Dire la verità e ricordare che siamo un impasto tragicomico di bene e male. Questo libro vuole essere un promemoria sulla privata mostruosità e anche grandezza di ognuno di noi. Per ottenere il rispecchiamento del lettore attraverso la mia persona, mi sono messa per la prima volta nei panni degli assassini: alcuni disperati, altri spietati. Alla lettera: «organismi disabitati, luoghi deserti / dall’apparenza umana», persone completamente incapaci di compassione. L’ho fatto per comprendere, per indagare le sconosciutissime radici del male «e vedere di nascosto l’effetto che fa», se vogliamo alleggerire il tema con le parole di Enzo Jannacci. E l’effetto è francamente devastante.

Può accadere a tutti, che la potenza eversiva dell’amore si rovesci nel proprio contrario.

Nel suo libro tutto ci dice quanto siamo e possiamo essere solo nell’altro. È così?

Sì. Se l’altro non esistesse, non avremmo la meravigliosa opportunità di smettere, per un poco, di essere noi stessi e diventare, appunto, l’altro da sé.

Come è nata l’idea di dare al testo anche un taglio “cronachistico”?

Da qualche anno provo molto imbarazzo nell’estetizzare eventi particolarmente drammatici. Affrontando il tema della Shoah, nel febbraio 2011, ho compiuto per la prima volta una virata decisa verso la cronaca: mi sono rifiutata di sublimare, ho deciso di dire le cose come stanno, riportando parole di testimoni. Il sottotitolo del “poemetto” Verba manent, nato dalla visione di un lungometraggio sulla Shoah, è infatti, esplicitamente: «meditazione sulle parole dei testimoni in Shoah di Claude Lanzmann».

Allora – mi si potrebbe chiedere – perché queste parole si trovano in un libro di poesia? All’ipotetica domanda rispondo che la poesia, per me, è mondo che prende la parola. In certi casi, decido dunque di lasciare al mondo la sua voce e limitare il mio intervento a comporre le frasi degli altri in maniera suggestiva, evocativa, indicativa. Utile, perché anche solo lasciar annegare quelle frasi nel bianco della pagina, stampata dentro un libro di poesia, serve a staccarle dal brusio di fondo della cronaca, le incide nella nostra memoria.

Lei scrive: “Siccome nasce,/come poesia d’amore, questa poesia/è politica”. Qual è l’essenza politica dell’amore?

Ogni nostra azione, ogni piccola scelta quotidiana, tanto più quella delle parole che adoperiamo, è politica. La mia affermazione vuole anche richiamare la strategia politica al proprio fondo etico, di amore per la cosa pubblica e comune.

Inoltre, l’amore tra persone ci costringe ad accorgerci dell’esistenza di un altro. E l’esistenza dell’altro, che amiamo, è il primo bagliore del mondo, che ameremo.

La sua poesia è attraversata dal corpo, c’è molta fisicità e adesione alla vita, c’è attenzione all’altro e c’è una memoria della bellezza che pare essere nostra gioia ma anche pena. Che cos’è la bellezza per Maria Grazia Calandrone?

Quello che basta.

Se guardiamo il viso di una persona amata, siamo completi. Al posto giusto, nel tempo giusto. Mai sazi e, nello stesso tempo, pieni dell’ammirata malinconia del tempo che trascorre e del ricordo di una perfezione irraggiungibile, come è scritto nell’ideogramma giapponese di amore, che riassume la capienza assai piccola della nostra persona di fronte alla vastità appunto fisica del sentimento.

Se guardiamo uno spettacolo naturale, o la luce di una vetrina, che ci fa sentire “a casa”, siamo nella bellezza, cioè in un’identica pienezza amorosa.

La parte finale del libro è interamente dedicata ai rari momenti nei quali ci accorgiamo di essere vivi e della luce segreta del mondo, al puro esistere. Ovvero lo stupore per la bellezza che abbiamo ancora la fortuna di poter osservare. Ogni giorno.

Lei è autore, performer, giornalista e molto altro, soprattutto fortissima lettrice. Quali sono i suoi autori?

Tra i poeti: Dante e i poeti russi della rivoluzione, perché i testi di questi autori sono sospinti direttamente dall’energia propulsiva della storia. L’esilio, la rivoluzione, i grandi mutamenti sociali e politici, danno letteralmente fuoco alle parole.

E poi, seguo ogni volta con apprensione la ricerca esistenziale di Giorgio Caproni, il suo approdo all’ironia lieve, alla «disperazione calma» del viaggiatore che si congeda.

Naturalmente, la mia poesia si nutre di ogni genere di lettura, dai saggi scientifici ai quotidiani, che non mancano mai sulla mia scrivania.

Qual è la sua gioia?

I momenti nei quali sono accanto alle persone che amo e le so serene. Pur nella difficoltà del nostro mondo, ci sono delle oasi di straordinaria purezza, per le quali sono profondamente grata. La gioia è una costruzione quotidiana, sta soprattutto nel moto e nella direzione che imprimiamo al nostro tempo su questo stortissimo, stoltissimo e bellissimo pianeta.

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