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Poesia e politica (l’Ulisse n.22 10.19)

POESIA E POLITICA “l’Ulisse” numero 22, ottobre 2019 

  • La poesia, un controcanto collettivo alla paura e all’odio
  • (e il dovere politico della fiducia. Con gli occhi aperti)

intervento del 2 marzo 2019 alla “Casa della Cultura” di Milano

Maria Grazia Calandrone, convegno “Poesia e politica”, 2 marzo 2019 – YouTube

Comincio con un brevissimo aneddoto: in vista del 14 febbraio dell’anno in corso, 2019, il quotidiano romano «il Messaggero» commissiona a un esiguo numero di poeti un testo sull’amore al tempo dei barconi. Mossi da vari moventi, i poeti scrivono e consegnano. Non accade niente, se non una tanto inutile quanto violenta polemica interna.

Pochi giorni dopo, Emma Marrone conclude un suo concerto con tre parole: «Aprite i porti», che suscitano un ciclone.

La premessa valga a documentare che siamo consapevoli delle proporzioni reali dell’incidenza del fenomeno-poesia. Eppure, sogno e lavoro di questo momento della mia vita è che la poesia torni a essere di tutti e per tutti.

*

L’io lirico, inteso come esempio pedagogico soggettivo di un altro modo di stare al mondo, è talmente contraddittorio da essere ormai insostenibile: tutti i poeti, volenti o nolenti, sono macinati dall’ingranaggio del neoliberismo. Come potrebbero autenticamente rispondere dell’eccezionalità delle proprie parole con l’eccezionalità delle proprie vite?

La poesia lirica, intesa come riflessione sensibile al mondo, come visione filosofica della storia che mantiene uno sguardo ampio, che lega cosa con cosa – oggi diventa civile, presa in carico di un «noi» del quale abbiamo umanamente bisogno, in quest’epoca fluida e precaria, di smarrimento politico e sociale.

La poesia può proporsi come legante contrario al legante sociale dell’odio e della paura, che si vuole travolgano un paese dove sono stati creati nemici immaginari, dove la cultura è un bersaglio da bullizzare, dove il popolo è stato diviso e spaventato a scopo politico.

La poesia riveste, a mio parere, la funzione del controcanto come resistenza politica. Ma, per agire davvero nel tessuto sociale, è necessario che i poeti escano dai luoghi della poesia, che siano veri e propri attivisti, che vadano a rappresentare con i propri corpi (e con letture di poesie auspicabilmente non proprie) una diversa possibilità di vita, soprattutto nella scuola pubblica e soprattutto alle elementari, perché ogni costruzione che regge al tempo, inclusa quella della persona futura, si comincia statisticamente dal “basso”. Nessuna costruzione comincia dall’alto.

Non dimentichiamo che “bellezza” e “bontà” sono fatica quotidiana, il risultato di una incessante contrapposizione al nostro stesso fascismo naturale.

Mi spiego: di fronte a un cambiamento, l’istinto rettiliano, elementare (oggi detto «la pancia»), suggerisce a chiunque di allontanare e zittire, piuttosto che accogliere e ascoltare. Più immediato essere diffidenti e respingenti. Per ciò diciamo che il fascismo è ignoranza. Ignoranza di sé, prima di ogni altra ignoranza.

E allora, più nel dettaglio, qual è la qualità dello sguardo di un poeta che ritengo necessaria a una società spaventata?

L’attenzione chirurgica ai sentimenti, lo svelamento degli inganni consolatori, ovvero l’emersione del rimosso sociale e, dunque, la possibilità di mostrare (a sé stesso per primo, attraverso le parole – e dunque al lettore) la “cosidetta realtà” completa delle sue due parti, visibile e invisibile.

La poesia, con la sua quota ampia di silenzio, allude sempre all’ultrasuono dell’invisibile, fatto di rimosso psicologico e sociale, dell’ottanta per cento di materia oscura che compone il nostro mondo e anche dell’immane impatto di energia del nostro vivere e forse, chissà, dei nostri morti e del nostro morire.

In una parola, cerca di esprimere – più che di dire, perché dice forse più con le pause – la verità. Ma.

Nel nostro paese, dopo Pasolini, non è stata più scritta poesia civile, perché non ne abbiamo più avuto bisogno: abbiamo attraversato anni di discreto benessere economico – anzi, un dolente Ventennio di stordimento edonistico – e, soprattutto, dopo gli anni entusiasti e complessi della ricostruzione del dopoguerra, abbiamo attraversato settant’anni d’ininterrotta pace, sebbene poeti-sentinella, poeti attenti come Antonella Anedda, abbiano sempre chiamato «tregua» la nostra iniqua «pace occidentale», fondata sullo sfruttamento delle risorse di quelli che oggi abbandonano le proprie case, a rischio della propria stessa vita, per godere qui, almeno insieme a noi – o meglio, ai margini extraurbani di noi – di quanto abbiamo loro depredato.

La reazione dell’Occidente benestante è stata cominciare immediatamente a lamentarsi d’essere povero anch’esso, di non avere le forze economiche per accogliere quelli che ha ridotto alla fame – o dei quali ha finanziato le guerre. Il neoliberismo ha fatto saltare i parametri del bene e del male, la possibilità che un bianco che alla sera chiude a doppia mandata la porta di casa riesca a (o voglia) identificarsi con un nero che vive per strada tra l’immondizia e a rischio continuo di subire – o compiere, come dargli torto? – violenza.

Come possono tacere, i poeti, di tutto questo?

In questo clima la poesia diventa indispensabile.

La poesia dovrebbe rimanere in piedi come una sentinella nel deserto umano, a ricordare il mondo prima della ferita, il mondo prima della separazione. Ciascuno può dare il nome che vuole a quella memoria di una felicità, primaria e perduta: Traströmer lo chiama «lingua invisibile», Tolstoj – letto da Wilfred Bion – «mondo protoverbale», Baudelaire correspondences, Neruda immagina Whitman galoppare nell’alfalfa cogliendo papaveri per il futuro, Dante lo chiama «Paradiso», o un intelligente riverbero del mondo fusionale amniotico. Non importa il nome, importa che tutti abbiamo la memoria di un tempo nel quale siamo stati felici, il ricordo della gioia, di un antico, bellissimo, dantesco «Intelletto d’Amore», quando il mondo ci pareva solo quello che è: uno spettacolo commovente, dove noi siamo una fondamentale, ma irrisoria, particella viva.

Nei paesi arabi, in Africa, nell’Europa dell’Est, fra gli Armeni, la poesia ha sempre continuato a parlare di cose concrete e ha parlato da vicino agli esseri umani, rivelandone e incoraggiandone sentimenti, desideri, diritti: negli altri paesi la poesia continua a essere il controcanto solido al dolore delle persecuzioni, della fame, delle guerre, delle oppressioni, mentre i poeti dell’Occidente si sono ripiegati sulla fluida materia sentimentale o hanno applicato le proprie intelligenze alla ricerca sulla lingua.

Poi una mattina vado al mercato e scopro che nel gergo popolare ha fatto il suo ingresso l’invettiva di nuovo conio «vammorìammare», variante del più generico invito «vammorìammazzato».

La mala esortazione viene scagliata da un verduraio anziano all’indirizzo di un ragazzino nero. Il verduraio che prescrive la morte al ragazzino non è mosso da quella che, pur superficialmente, legittimeremmo, rubricandola alla voce «guerra fra poveri»: il commerciante possiede uno dei banchi più voluminosi del mercato dell’Alberone, fa pagare 4 euro un sacchetto di puntarelle «capate».

La sua è pura irrazionalità ventriloqua, sono stragi in diretta televisiva che diventano modi di dire, orrori assunti come esortazioni.

Ma le parole formano i pensieri. E i pensieri formano le azioni.

Ancora. Un pomeriggio suona alla porta di casa un venditore dello storico aspirapolvere «Folletto». Rispondo che «Grazie no» e lo sento replicare, scendendo le scale: «Madonna che puzza dentro ‘sto palazzo. Ma che, ce stanno i negri?»

Così, confermo l’urgenza di un argine, confermo che non è più tempo di arte per l’arte, ma che è tornato il tempo di una poesia che si faccia pieno carico della realtà, che prenda la parola a nome di chi non ha voce, senza impantanarsi nel dilemma sterile del diritto che hanno i poeti – che comunque sono e restano un io biografico, nonché biologico – di pronunciare un «noi» senza peccare di arroganza. Ognuno sta trovando la propria soluzione: ci sono quelli che costruiscono sistemi algebrici fatti con le parole, «false enciclopedie», nuovi modi stilistici, di intelligenza enigmistica, fluida, installativa e aliena, e luoghi carsici di distribuzione dell’opera, coi quali desiderano terremotare i palazzi dell’establishment, derivando però i loro stilemi dalle barricate anticapitaliste di culture capitaliste e colonialiste come quella francese e americana; c’è chi, come Guido Mazzoni, cambia continuamente la persona che dice io, per articolare da ovunque la sua condanna a un mondo molto dopo la perdita, dove siamo così disincantati che l’orrore non ci fa più orrore (vammorìammare) e si maschera con la maschera del grande padre Stevens per cantare; c’è chi parla di sé scarnificandosi fino allo stato di emblema del genere umano, come Antonella Anedda, che arriva a pronunciare la «letizia dei santi», giunta a strappi nel luogo dove non importa più quello che Mariangela Gualtieri identifica come radice del male: la pretesa di essere amati.

Anche i nostri poeti, oggi più che mai, sono in grado di ricordare al mondo cosa ci rende felici e dunque umani. Le due cose sono strettamente connesse: più siamo felici, più siamo disponibili, più siamo felici… Il solo modo di essere felici è sentirsi parte di una comunità affettiva, avere oltrepassato la solitudine nella quale ci getta l’abbandono che avviene col nascere. E, più siamo felici, più comprendiamo che il nostro compito è formare un controcanto collettivo alla paura e all’odio – e che abbiamo il dovere politico della speranza e della fiducia. Con gli occhi aperti. È necessario che i poeti continuino a leggere in profondità il narcisismo e l’isolamento di questo Occidente in agonia, ma è necessario anche che comprendano e credano che la loro poesia può contribuire a formare la coscienza dell’opposizione, ovvero la radicale, elementare e giusta accoglienza umana.

È chiaro che, quando si afferma che la poesia non influenza la politica, si pensa alla politica dei vertici. Ma la poesia può cambiare le vite che formano la società: porta a porta, lettore a lettore, ascoltatore ad ascoltatore. Rimpiazzando magari il cinismo col senso etico, individuo per individuo.

Rimane comunque lontanissima da me la pratica di smontaggio del giocattolo della poesia, non amo teorizzare metodi e tanto meno proporli come unica scrittura auspicabile e possibile. Ognuno di noi si comporta, con gli oggetti che ricadono nel suo interesse (poesia inclusa), a seconda di quello che è. Il mondo che vediamo – e successivamente eleviamo a teoria – è lo specchio di quelli che siamo.

E io sono una che ritiene che cristallizzarsi o agglomerarsi intorno a un’idea di metodo sia un pericolo per la creatività e la ricerca, che deve necessariamente essere rischiata da ciascuno. Alla prima persona. Io stessa potrei cambiare idea su tutto quanto ho dichiarato, poiché ritengo la poesia uno spazio di vera e gioiosa “libertà militante”.

Scrivere poesie è un privilegio troppo grande, per guastarlo coi regolamenti. Credo che ognuno debba concedere a sé stesso e agli altri di provare ogni volta  l’entusiasmo, il trauma e la gioia ineguagliabile della parola, che seguiamo da vivi, a bocca aperta, per scoprire quello che non sappiamo, i luoghi fuori dalla giurisdizione conosciuta, dove non siamo mai stati.

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