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Poesia civile (7Corriere 2.4.21)

Il mondo è nostro e noi siamo del mondo. Chi fa poesia non scappa dal mondo, anzi, lo assimila e lo restituisce a chi legge, depurato dalle scorie di molti altri linguaggi che creano confusione (pubblicità, iper-informazione), perché essere poeti significa avere una visione, ricordare una lingua e una luce precedenti al presente, sentirne l’attrito col presente e rintracciare nell’oggi ogni splendente coincidenza con quella luce originaria. La poesia civile nasce da quell’attrito e da quella memoria. Anzi, da quell’utopia.

MAHMOUD DARWISH

Persa la propria casa da bambino, durante il conflitto arabo-israeliano del 1948, Darwish si trova immediatamente a vivere da straniero nella propria terra d’origine e questa condizione spontaneamente influenza l’opera di tutta la sua vita, talmente sovversiva da guadagnargli numerose prigionie, però incapaci di metterlo a tacere. Darwish conduce infatti una vita di esilio e attività politica incessante, nel Partito Comunista di Israele, ma soprattutto come dirigente dell’ala dura dell’OLP. Parallelamente, nelle vesti di giornalista e poeta, racconta la guerra, l’oppressione e l’esilio, mettendo con coraggio la propria esperienza a disposizione di tutti e le sue parole sono così incisive e così capaci di raccogliere la voce di un intero popolo che a Ramallah, intorno alla sua sepoltura, è stato edificato un museo, nel quale sono conservati alcuni manoscritti originali e sono stati ricostruiti alcuni degli ambienti nei quali Darwish ha vissuto, mentre scriveva parole limpide, radicali e piene di forza come «Mio padre… viene dalla stirpe dell’aratro, / […] / Mi ha insegnato l’orgoglio del sole / Prima di insegnarmi a leggere»

FORUG FARROKHZAD

Nata a Teheran nel 1934 e scomparsa a soli 33 anni, Farrokhzad è la prima poetessa persiana a occuparsi del ruolo della donna nella società a lei contemporanea, dello shah Reza Pahlavi, e nella più ridotta società domestica, consapevole di quanto sia difficile far penetrare le conquiste politiche e sociali fin nell’ombra dei muri di tutte le case. Per tematiche e stile, l’opera di Farrokhzad offre un contributo determinante anche al rinnovamento della letteratura persiana tradizionale, ma una poetessa così avanguardista è destinata a ricevere poco amore dal suo paese, proprio a causa del grido di libertà cha emana dalle sue pagine e dal suo stesso corpo, che rivendica il proprio diritto a vivere come il corpo di un uomo e così Farrokhzad si rifugia per qualche tempo in Europa, dove riceve molti premi per La casa è nera, il documentario che ha girato nel 1963 in un lebbrosario iraniano. Come spesso accade ai pionieri, dopo la sua morte il pensiero di Forugh, sull’arte impastata in un’unica opera dolorosa e splendente con la vita, diventa esempio rivoluzionario per gli artisti della sua terra e per le donne afghane e così, attraverso la voce di tanti altri, la poetessa può ancora cantare «Saluterò di nuovo il sole, / e il torrente che mi scorreva in petto».

NAZIM HIKMET

Nel 1961, quando Fidel Castro ha appena preso il potere, il poeta turco Nâzim Hikmet viene invitato a Cuba per scrivere un reportage sugli esiti della rivoluzione. Hikmet ha sessant’anni e un passato da rivoluzionario: da ragazzo aveva sostenuto Ataturk, ma aveva denunciato il genocidio armeno e si era trasferito nella Mosca di Lenin, dove era diventato comunista e antimilitarista. Al ritorno in Turchia, ormai oppositore di Ataturk, che intanto era diventato presidente, Hikmet viene incarcerato, torturato e liberato dopo 12 anni e un infarto grazie all’intervento di una commissione internazionale dove figurano Sartre, Neruda, Picasso. Il «rivoluzionario romantico» Nâzim, mentre è in carcere, scrive versi sovversivi, che non possono circolare ufficialmente, ma riescono comunque ad arrivare fuori dalla cella. Nella Cuba di Fidel Hikmet intona felice la sua voce, scrivendo La conga con Fidel – ballo poetico della rivoluzione cubana, un libro in perfetto equilibrio tra amore e politica, dove Hikmet descrive in un’entusiastica presa diretta quel che vede nelle strade de l’Avana: «incontro dei contadini / nella destra hanno il titolo di diritto alla terra, nella sinistra / l’iscrizione alla cooperativa / sembra che sognino e temano di svegliarsi». 

OSIP MANDEL’STAM

Mandel’stam è il poeta al quale Stalin risparmia la vita, poiché ha quasi timore di lui, quanto meno rispetto, in quanto ritiene che i poeti siano «ingegneri dell’anima» e quindi abbiano un’intrinseca preziosità, oltre a una via d’accesso privilegiata alla realtà. Nonostante il poeta lo abbia appellato «montanaro caucasico» con dita «grasse come vermi», Stalin si limita a spedirlo al confino a Voronež, addirittura in compagnia della moglie Nadezda e del giovane amico poeta Sergej Rudakov ed è proprio grazie a questi due testimoni che possiamo ricevere le trascrizioni delle poesie di Mandel’stam, perché il poeta scrive a voce, è un intero organismo poetico al lavoro. «Non ho una scrittura, perché non scrivo mai», confessa. Eppure, le convulsioni del suo stile, i martelli del ritmo, le pronunce difettose, sono il Novecento russo che, attraverso la sua persona sensitiva, affonda in Dante, tanto più quando, condividendo il destino di Alighieri, Mandel’stam è costretto a lanciare le sue parole da un esilio forzato. Nonostante si pieghi infine a scrivere un’Ode a Stalin, nel 1938 viene condannato ai lavori forzati in un gulag siberiano, dove si spegne quasi subito e il suo corpo viene abbandonato in una fossa comune.

EDGAR LEE MASTERS

Un bel giorno di maggio la mamma va a trovare Edgar e chiacchierano degli abitanti dei due piccoli villaggi dove vivevano un tempo. Masters è già poeta e dalla sua penna nasce così una mescolanza fantastica dei due paeselli e comincia a pubblicare alcune brevi poesie, sotto pseudonimo, sul «Mirror» di St. Louis. Quelle vite, trascritte in un perfetto incrocio di narrazione e lirica, hanno grande successo e per due anni Masters non smette di lavorarci, introducendo l’ironia in una grande elegia americana: attraverso la vita – anzi, attraverso il racconto ormai concluso della propria vita da parte dei morti, Masters riassume l’intera epopea del società americana e non solo, perché quei morti diventano emblema dei vizi e delle altezze dell’intera comunità umana, fino a leggerne il risvolto invisibile, il doppio sguardo che è la cifra esistenziale di ogni poeta e che Masters concentra scrivendo «e io, che ero pensiero, / potevo sentire una Presenza pensare» e così il poeta, nato in relativo agio nel 1868, muore in miseria nel ‘50, perché pianta la professione forense e si dedica solo alla scrittura. In Italia lo Spoon River esce nel ’41 ma, poiché il fascismo osteggia le idee libertarie americane, la S del titolo viene puntata, per far credere che il volume sia una raccolta delle massime del presunto San River.

GEORGE OPPEN

Oppen attraversa quasi per intero il Novecento. Da giovane aderisce al Movimento Oggettivista di Pound, che cerca una poesia scarna e, appunto, “oggettiva”, ma nella Grande Depressione degli anni ’30, Oppen abbandona la poesia, si iscrive al Partito Comunista e lavora «per rovesciare il governo degli USA». Nel dicembre ‘44 si trova in Francia, schierato con il suo paese contro la Germania di Hitler e, ferito gravemente, torna in America, ma, negli anni del maccartismo, va in esilio politico volontario in Messico, insieme all’amatissima moglie Mary Colby e ricomincia a scrivere poesia solo al ritorno negli USA, nel 1958. Una vita partecipe e contraddittoria come una lunga meditazione sulla storia, che produce una scrittura onestissima e chiara, piena di una struggente fiducia nel pensiero e del fermo desiderio non di dimostrare il mondo, ma mostrarlo senza commento. Oppen desidera restituire oggetti in sé, spesso privi dei legami costituiti dai verbi, ma che esplodano a causa di scioccanti apparizioni di senso, come i cervi selvatici di Salmo, che «Strappano estranei l’erba / Le radici / Pendono dalle labbra / Spargendo terra negli strani boschi».

ELIO PAGLIARANI

Elio Pagliarani ha il merito di intercettare e descrivere il cambiamento sociale dell’Italia degli anni Sessanta, cioè il processo di industrializzazione e spersonalizzazione in atto nell’intera società occidentale, che il poeta riassume –praticando quella che egli stesso definisce «pietà oggettiva» – per esempio nel severo, malinconico e tenero poemetto La ragazza Carla, dedicato a un’indimenticabile stenodattilografa che ha un povero e quieto amore di sé e diventa emblema del costo umano degli anni della Ricostruzione. La parola di Pagliarani è immersa nell’atmosfera sociale del suo tempo ed è talmente sempre parola di altri, morale e corale, che l’intera sua poesia finisce per costruire un’epica di antieroi, lontana dal mito e dall’immortale. Grande inventore di ossimori come Fecaloro, Pagliarani desidera sanare le fratture della realtà suturandole in una parola poetica attenta a ogni mutamento, che ricostruisca la voce del presente e della realtà minuta  e restituisca al quotidiano l’immortalità della poesia, tanto da scrivere: «Posso spendermi solo per le cose che passano, quelle che restano ci penseranno loro».

PIER PAOLO PASOLINI

Pasolini è poeta qualunque attività svolga (regista, critico letterario, giornalista politico): perseguitato dallo splendere di una qualche memoria, forse della campagna di Casarsa abitata nell’infanzia, piega la poesia a una feroce critica sociale, come nel Pianto della scavatrice, poemetto dedicato alla ferita del futuro che la società occidentale sta incautamente preparando, dove la parola «decoro» è destinata  a coincidere con la parola «rancore». Lanciando il suo monito dagli anni Sessanta, Pasolini prevede cosa significherà appiattire l’erba delle periferie con colate perbeniste di cemento, creare anelli urbani sempre più invadenti, col rischio di cancellare insieme all’erba gli esseri umani e le loro differenze vitali, alle quali Pasolini guarda con tanto strazio e desiderio da mettersi a fiutare ogni traccia di quello che gli pare sacro, ancora pulsante accanto alla sua forma dissacrata. Come chiunque abbia un pensiero chiaro, Pasolini desidera che il proprio pensiero venga compreso, poiché «la morte non è nel non poter comunicare, ma nel non poter più essere compresi».

CLAUDIA RANKINE

Claudia Rankine, poetessa statunitense di origini giamaicane nata nel 1963, nei propri testi affronta il difficile problema della discriminazione razziale contemporanea negli Stati Uniti. La sua raccolta in prosa ritmica, premiata con il National Book Critics Circle Award e mirabilmente tradotta in italiano da Silvia Bre, s’intitola Citizen (una lirica americana), perché cittadino «non è una parola neutra, ha significati diversi a seconda del colore della tua pelle» e così il volume di Rankine è una raccolta civile di storie di ordinaria ingiustizia, se non follia, come quella del diciassettenne afroamericano Trayvon Martin, ucciso nel 2012 con un colpo di pistola al cuore, benché fosse disarmato, da una guardia che verrà poi assolta per presunta «legittima difesa». Giornalista e professoressa a Yale, Rankine dedica alle famiglie private della casa dall’uragano atlantico Katrina del 2005 versi come «Ha detto, Non so cosa volesse l’acqua. // Chiamateli. / Non li vedo. / Gridate comunque. // Hai visto le loro facce?»

WARSAN SHIRE

Quella della poetessa britannica di origine somala Warsan Shire è l’ultima frontiera della poesia, che torna prepotentemente alle origini: poesia orale, che colpisce con immediatezza e vuole essere immediatamente compresa. Nata in Kenya nel 1988 e vissuta a Londra, dove i genitori si sono rifugiati per sfuggire alla guerra in Somalia, Shire è parte dei Black British Poets, poeti di diverse nazionalità e paesi, che usano la lingua poetica come espressione identitaria e, nel caso di Shire, i contenuti di molti suoi testi in lingua inglese sono esplicitamente politici. Uno per tutti, Home, un lavoro del 2017, scritto contro il muslim ban di Donald Trump (serie di ordini esecutivi che negano l’ingresso negli Stati Uniti ai cittadini di molti paesi musulmani), nel quale la poetessa dà piena voce alle motivazioni che spingono gli immigrati a imbarcarsi in condizioni di altissimo rischio e abbandonare una casa che non ha appunto più i connotati di una casa, ma si è trasformata in terra di stupri e rapina: «devi capire / che nessuno mette i figli su una barca / a meno che l’acqua non sia più sicura della terra».

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