Goliarda Sapienza, Ancestrale (Einaudi ET Poesia 2025)
postfazione alla raccolta di poesie Ancestrale di Goliarda Sapienza (Einaudi ET Poesia 2025)Rass. stampa_Ancestrale_11-06
Tutto comincia dalla nostalgia di una madre consumata dall’attesa e impossibile da ritrovare. A chi ama in ritardo non è dunque dato tornare fra le cose perdute, se non in fondo a un pozzo d’acqua piovana. In forma oscura, impenetrabile e pericolosa. Il ritorno tardivo contiene il rischio di non riuscire a vedere chiaramente e, perciò, di rimpiangere la visione nitida dell’amata e di sé, specchiati nello sguardo dell’amata. E qualcosa continuamente incombe, fra queste pagine pervase di rammarico e attesa, d’immagini feroci di una natura viva e vivente, di una corsa da fermi nei territori bui della memoria, dove gli specchi sono velati, da scialli neri o dal tempo, o girati al contrario, voltati contro i muri.
La propria immagine si suppone, dunque, rivelata soltanto nell’acqua scura in fondo al pozzo. Per noi stessi, siamo quasi impossibili da vedere e la promessa di sé è tutta inclusa nella presenza dell’altro, nel ritorno dell’altro, che però si rivela impossibile. Esistere, allora, è la fretta continua di afferrare la fuggevolezza di qualcuno fuori di noi, avanti e indietro nel tempo.
Osservando una foto del proprio padre giovane Sapienza confessa, perciò, di desiderare un figlio da lui, ma solo per poter richiudere quel padre ragazzino in una bara. Da vivo, con l’aiuto del proprio immaginario figlio-fratello. Tanto ardito il desiderio, tanto uguale e diverso dall’invocazione di Giorgio Caproni alla propria anima, di raggiungere la madre giovinetta, mettersi al fianco di lei come fidanzati. Molte pagine dopo, però, nella dedica al padre in quanto padre vissuto con la sé stessa bambina, compaiono episodi che sanno di riconoscenza profonda per l’educazione ricevuta: spettacoli di Pupi, l’insegnamento di un amore senza dio (minuscolo), ma amore per i corpi fatti di carne e miseria, tante letture e cose fatte insieme, perché sembra sia stato proprio lui a insegnarle come poter attraversare l’occasionale vita che ci è data.
La serie di poesie di Ancestrale può dunque essere letta anche come registrazione da sismografo delle contraddizioni sentimentali, dei diversi e addirittura opposti stati dell’anima, nei confronti di sé e degli esseri umani più vicini e cari. La figura che dice io appare quasi sempre sotto le spoglie di un essere desiderante, con braccia tese o palme arrovesciate nel gesto della rinuncia, quando l’inafferrabilità del reale è più evidente che mai, più bruciante che mai. Eppure, dalle pagine sale un’aria di lotta, di ferro e fuoco, un’aria notturna, così diversa da quell’improntitudine vitale che si rovescia sui lettori dell’Arte della gioia. In Ancestrale i toni sono tutti accesissimi e le cose del mondo e della natura sono spesso tutt’altro da sé, non paiono vere cose, ma proiezioni del mondo interiore e del sentire di Sapienza, che ci regala un’esplosione di immagini vivide, non di rado violente. Una per tutte: il tramonto è «sfracellato / nell’ombra del cortile».
Pagina dopo pagina, infatti, le metafore naturali delle quali Sapienza in principio si avvale per definire – o meglio, riscrivere a suo modo – il corpo umano, si trasformano in una gloriosa e oscura personificazione pagana degli elementi naturali. Topi, lumache, scorpioni, lucertole, elementi del cosmo che si muovono e ruotano, dentro quel cielo basso e cupo che fa venire sete pure ai morti. Poi, quando viene l’alba, quando viene la luce chirurgica del giorno, gli amanti, più spesso le amanti, fuggono dall’abbraccio, scivolano via. L’operoso giorno divide e rimette ciascuno nel solco del proprio fare.
Uno fra i testi più incisi e dettagliati della raccolta, pieno di odori e lampi di figure e rumori, tanti rumori, è il compianto per la piccola Nica, morta nell’aprile del 1942 sotto il bombardamento di Catania, col balenio dei quaderni lasciati cadere e le treccine che ballano sulle spalle, mentre tenta, invano, di rifugiarsi. Lo sguardo di Sapienza sbuca fuori dal proprio lamento d’amore e si fonde a un lamento più grande e convulso, di rabbia e dolore, che appartiene comunque all’autrice, perché, nata nel 1924, Goliarda è adolescente quando Catania viene bombardata. Nel romanzo autobiografico Il filo di mezzogiorno, racconta più estesamente la macelleria di quella distruzione, scavando nella propria memoria con l’aiuto di una psicanalista. Tra le cose dolenti che Sapienza trova, ricompare l’orribile guerra, che sta pure nell’Arte della gioia, ma vista più da lontano, da quel luogo remoto dove stanno reclusi i vivi e i morti che è villa Brandiforti.
Più avanti, in questo febbricitante Ancestrale, verrà di nuovo inclusa la figuretta di Nica, stavolta in una serie di dediche a donne, celebrata undici anni dopo la sua scomparsa, che Sapienza definisce però, esplicitamente, morte, perché lei non edulcora niente, vince la sua paura delle cose e delle parole, dice sempre le cose come stanno. Nella stessa sequenza di dediche, infatti, compare la coscienza del dolore come destino delle donne, che però tengono ognuna segreta la propria pena, per pudore e per scanto, per la paura che mostrarsi deboli possa mettere armi in mano a chi desidera ferire.
La vita stessa, pare un combattimento interminato fra memoria e realtà, dove la memoria ha potenza suprema, superiore a quella delle cose reali, trasfigura le cose del mondo, si sovrappone a esse coi suoi colori e le sue immagini infuocate. Anche perché, se non la guerra, è la luna stessa, l’onnipresente luna, a sfilare le infanzie da sotto i cuscini, in questa vita che non è che un’«ora carnale», e lo fa perché «la paura ha una faccia grande di luna / e due soldi per occhi».
Questa paura femminile, dunque, questa paura lunare, può essere consolata dall’immaginazione e dall’immaginazione di altri, come le invocate braccia delle donne dai grandi seni materni o di bianca gardenia intravista sul far della sera, o come il grembo del giovane Eugenio Montale, al quale Sapienza dedica un distico che è una supplica di lasciarla stare, ancora un po’, con il viso affondato su di lui: «Lo so dovrò riperderti ma lascia ancora / il mio viso affondare nel tuo grembo». Gli uomini sono dunque una forza esterna che conduce le donne a maturità, sono figure dalle quali imparare l’arte di vivere e uccidere, ma sono anche figure composte e ricomposte dalle proprie e dalle altrui parole, sul corpo delle quali riposare, calmare la fatica del combattimento, sostare un poco, non più inseguite dal bisogno di registrare tutti i palpiti di tutto il vivente e del vissuto. Questo correre intenso che è il vivere, ha quiete dunque nell’abbraccio, di uomini e donne. Ha quiete nell’amore.
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!