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Natile Antonio, Dove c’era il lago (LietoColle, 2011)

prefazione a Antonio Natile, Dove c’era il lago
   Lietocolle, 2011
 

 
Questo bel libro dedicato a una Maria non nata è certamente un libro dove i capelli contano più del cielo, un libro fatto di dialetto, di tosse e di bandiere in una quasi feroce tensione antilirica e che significativamente chiude con le parole tutto andava visto da lontano. Dunque assistiamo al doppio salto mortale della parola che vuole farsi oggetto del mondo e che però sa di dover rimanere a distanza per acuire il suo sguardo, il suo dire qui spesso per sintesi del discorso diretto. Dal volumetto nel suo complesso emerge una serie di fermi immagine da film in bianco e nero, le impressioni di un lungometraggio dove i legami sono forti e virili, sono scabri legami di parentela e lavoro e dove la voce della terra è – sebbene sommessa – onnipresente, a dimostrazione che ciascuno porta nella sua parola la sua vita, ma appunto con quello scarto, quel disorientamento che induce la poesia.
Facciamo un esempio: oltre la metà abbondante del libro è detto che nel discorso orale di Piero la città di Taranto viene trasfigurata in una più nordica e ariosa Livorno. Ora: in poesia non si può nominare Livorno senza la consapevolezza di star facendo, insieme a questo nome di città, il nome della persona Annina Picchi, l’adolescente fidanzata-madre di Caproni Giorgio!: solo a sentire nominare l’altra città di mare viene alla mente la catenina fra i denti di quella ragazzina che anni dopo avrebbe avuto da partorire un grande poeta. E viene alla mente che anche quel poeta, così pieno di oggetti del mondo – ma del mondo agitato dall’aperto del mare – avrebbe impiegato una grandissima distanza di anni per poter celebrare sua madre e l’avrebbe fatta scendere adolescente e ignara le scale dei suoi versi. 
Quindi, in questo brevissimo esempio, parliamo di una città vera e del suo doppio poetico, della sua erosione poetica, della poesia che come un’acqua oscura e sotterranea scava e minaccia ma libera la terra aspra della realtà, porta alla superficie, sotto il cielo, la sua radice. Come detto, la lingua di questa poesia è sobria e con ogni evidenza “politica”, si fa simile ai temi che tratta. Ma attenzione: non stiamo parlando di poesia civile, stiamo parlando di un modo civile di fare poesia, perché comunque resta la sovversione, la radice esposta, il rovesciamento che sono congeniti alla funzione-poesia e che formano squarci di dubbio nelle apparenze, pure quando esse vengono consolidate con parole come intonaco e calce e cemento. 
Qui vengono accostati frammenti di discorso a frammenti di visione a frammenti di realtà: raramente, nemmeno nelle piccole prose, veniamo accompagnati da una narrazione e da una sintassi convenzionali. Eppure, si capisce in che mondo questo speleologo-poeta voglia calarci: emerge per immagini un mondo vivo e vero abitato da creature vive e vere ma sempre leggermente altre da sé: emerge ovvero l’effetto picassiano di un mondo negli occhi di un poeta: le cose ci sono ma i loro accostamenti aprono crepe in noi. 
Compiere questa operazione adoperando il dialetto è un gesto forte: il dialetto è la lingua spontanea del discorso diretto. Ebbene, in questo caso sembra che la poesia preceda il dialetto. O il pensare in poesia da parte dell’autore. Sì, perché ai poeti bisognerebbe chiedere: “tu vedi in versi?” come si chiede a un conterraneo emigrato a Londra: “sogni in inglese o in italiano?”: per sondare quanto residuo resti dentro i sogni della vita remota rispetto al presente, per sondare se il presente sia infine soltanto un’occasione di svago ma in realtà la lingua profonda sia rimasta attaccata a un qualche ramo della terra natìa. In Nàtile (mi si perdoni la facilità del gioco) sembra precisamente che il dialetto venga usato come si usa un attrezzo: per dare peso e sostanza di sangue ai frammenti del mondo-parola che il poeta si è trovato esploso nelle mani dopo averci posato lo sguardo, perché tutto, in poesia, ormai lo sappiamo, va visto da lontano
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