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Regina Coeli, la poesia va in galera (il manifesto, 30.10.12)

Soltanto i fatti parlano di noi. È da sempre una mia convinzione. Dunque tento di persuadere anche le parole a essere fatti. A Regina Coeli, in questo luogo di restrizione, in una sala piena di “cattivi ragazzi”, le parole tornano ad avere il gusto dolceamaro della salvezza. Questo è quello che devono pensare anche i volontari dell’associazione “A Roma, insieme”, che mi hanno invitata a sviluppare uno degli incontri del ciclo leggere e conversare in carcere. Appena entro, superato un mio istante superfluo di ingenuo entusiasmo per il monumentale introito del carcere, un signore distinto mi racconta la storia kafkiana di uno scambio di valigie in aeroporto. In una delle valigie c’era la droga. Ma la valigia non era sua, dice. C’era il nome di un altro, dice. Adesso l’uomo è diventato un “detenuto in attesa di giudizio”. I nomi cambiano la nostra percezione di noi stessi: nei campi di concentramento veniva tolto il nome insieme ai capelli e agli abiti civili. Ma le parole non si arrestano nemmeno con la censura, è noto. Qui sono urlate, malinconiche o imbevute di un pianto trattenuto, come spugne che siano state troppo a lungo immerse in una cieca e sorda profondità. La dannazione e la benedizione dei ricordi. La condanna, oltre che nella privazione della libertà, consiste nella costrizione a una vita sotto gli occhi di tutti. Il detenuto non è mai solo. Anzi, si trova in una contiguità strettissima con i compagni, occasionali e di etnie diverse. Questo significa la coabitazione coatta, nella metrata scarsa della quale ciascun carcerato dispone, con culture incredibilmente lontane dalla propria: nell’alimentazione, negli orari del sonno e della veglia, nella preghiera e in tanti casi nella solitudine: la maggior parte dei detenuti extracomunitari non ha parenti che portino i 5 chili di pacco settimanale, dunque deve accontentarsi di un vitto dalle condizioni igieniche disperanti. Va da sé che i detenuti “indigeni” spesso spartiscano quello che mandano loro i familiari: a causa del sovraffollamento il vitto è scarso e non dev’essere facile mangiare a mezzo metro di distanza da uno che ha fame.

Quello di questi uomini non è però un lamento, è una protesta, sebbene già scorata: sanno di stare sfiorando con le loro esistenze degli interessi più grandi di loro, anche quando parlano di dettagli come due rubinetti rotti che da mesi gettano acqua a cannella aperta. Pare che il carcere non sia in grado di sostenere la spesa di due guarnizioni nuove. Eppure, un detenuto costa allo stato 314 euro al giorno. I “detenuti in attesa di giudizio”, che risulteranno magari innocenti, vengono comunque mantenuti dalle vostre tasche, tengono a precisare. Ma il problema del sovraffollamento è invece insistente e serissimo. Mi pregano di scrivere che, quando si dichiara che i detenuti di Regina Coeli sono 1000, si dimentica di precisare che due dei padiglioni sono chiusi da anni per ristrutturazione, dunque le celle, che nessuno è ammesso a visitare, ospitano ciascuna sei detenuti, stipati in due file di tre letti a castello spinti contro le opposte pareti. Il letto in basso soffre di una cronica mancanza d’aria. Non si sta tutti in piedi nella cella. Se un numero di due detenuti è in piedi, gli altri quattro sono costretti nelle brande.

Da un crescente borbottare alla mia sinistra sbotta fuori dalla bocca di un bel ragazzetto moro il retropensiero di tutti quelli che non trovano interessanti i disagi della popolazione carceraria, inclusi gli organi d’informazione. Er moretto se guarda ‘ntorno co’ ll’occhi fieri e indolenti e fa: a regà, se stamo a sentì noi semo tutti innocenti! Aò, ma se stamo qua un motivo ce sarà, peggio pe’ nnoi che nun c’avemo pensato prima! La protesta è istantanea e corale: a regazzì e t’ho capito, ma c’è modo e modo d’esse puniti, mica semo bestie!

Questa battuta corrisponde all’apertura ironica e amara della lettera – rimasta a oggi come si suol dire “lettera morta” – che la “popolazione carceraria della IV sezione” scrive l’8 agosto scorso al ministro della giustizia Paola Severino (in visita alle carceri in compagnia del presidente ora dimissionario della Regione Lazio Renata Polverini). Scrivono i detenuti al ministro: se l’opinione pubblica mostra tanta sensibilità al problema del sovraffollamento nei canili non resterebbe certo indifferente se solo sapesse che altri esseri umani sono stretti a vivere come galline in batteria. Se sapesse che supplemento di pena ci viene dato ogni giorno. Già, se sapesse…

Nel documento, che mi viene trasmesso da Franco Fioravante, i detenuti denunciano uno per uno, in ordine evidente di lesione dell’io, i fatti che mi hanno tanto accoratamente esposto durante la mia visita: primo fra tutti l’ormai noto tema del sovraffollamento con tutti i già descritti corollari; e poi, scrivono, i colloqui con i familiari sono privi di una qualsiasi intimità e spesso relegati dietro un vetro: le visite durano un’ora scarsa a settimana e si svolgono ai due lati di un tavolo che permette ai congiunti di sfiorare le mani al proprio caro solo sdraiandosi sul tavolo stesso; infine, i familiari debbono fare il sacrificio di fornire denaro al “proprio” prigioniero, perché egli possa acquistare generi di prima necessità, che però in carcere vengono venduti a un prezzo tre volte maggiore che “fuori”. Questo mitico “fuori” dal quale tutti proveniamo. Chiude la lettera una sensatissima riflessione intorno alla sproporzione della pena per dei ragazzi che hanno provato a rubare un motorino. Il carcere – o meglio, questo carcere, scrivono, anziché rieducarli ne amplifica il lato oscuro. Non è dunque superfluo ricordare la differenza tra espiazione e rieducazione, altrimenti il carcere finisce per svolgere esclusivamente l’equivoca funzione di discarica sociale: allo stato attuale ospita infatti indiscriminatamente, senza riabilitarli e prepararli a un diverso futuro, tutti gli individui che sarebbero dannosi alla società, incluse persone affette da disagi psichiatrici, ai quali vengono comminati psicofarmaci per mero scopo di sedazione. Non sono rari i suicidi (due dall’inizio del 2012) e molteplici i tentativi di togliersi la vita. Questi uomini non chiedono che venga loro abbreviata la pena, chiedono di viverla in condizioni umane.

Ecco dunque una piccola massa umana qui presente che espone se stessa come un muro compatto di sentimenti e manifesta una voglia grande di parlarne con chi non appartiene al loro mondo ma rappresenta un altrove glorioso dove si crede che i propri gesti e le proprie parole vengano presi in considerazione. Prometto. Ma sono qui per parlare di poesia, questi uomini sono venuti qui anche per ascoltare le parole dei poeti. Ho con me Caproni, Celan, Mandel’stam, Sereni: le parole sfuggite all’esilio, la parola che tocca la condizione umana più marginale ed estrema e la pone sul nudo altare della pagina, in quel “sempre”, in quel “fuori” cui questi uomini aspirano. Alcuni fra loro, nell’entusiasmo della lettura comune, ancora titubanti, vanno a prendere in cella i testi scritti da loro. Uomini che si espongono doppiamente. Leggiamo insieme, ci commuoviamo, applaudiamo. È un momento raro. Ecco tra noi la nudità e il contatto nel quale tutti speriamo e che ha con sé la poesia, nella sua grazia essenziale, completamente priva. Forse questo è il pericolo che porta: sentirci tutti uguali, tutti umani. La poesia, la cultura, devono avere molto a che fare con il fantasma di un rischio sociale se i detenuti, per ragioni che ci parrebbe utile indagare, possono ricevere ogni mese solo un numero di 5 tra libri e riviste. Eppure sappiamo tutti che la cultura aiuta a sviluppare il senso critico (e dunque anche autocritico) e la lettura è a volte una “evasione” (quanto diversamente suona questa parola tra queste mura! – e lo sanno e la dicono con ironia) che aiuta almeno a far passare il tempo. Ma la parola non si può arrestare. Alcuni, quando si spengono le luci, hanno bastante energia e speranza – o hanno abbastanza nostalgia e ferocia per se stessi o amore per chi è lontano per causa loro – per scrivere poesie.

CESARE CECECOTTO

In attesa di giudizio – Regina Coeli
presunzione d’innocenza

Sor Giudice, P. M., avvocati benedetti
da tanti altri maledetti
ho vissuto la mia vita piena di divertimenti
sfrenato, irregolare e poco pensare
ora mi resta solo da pregà
misericordia, non pietà
una grande condanna non me potete da’
sor giudice sia clemente
mannateme a casa immediatamente
ve lo chiedo – un po’ trafelato – salvate me
poro disgraziato, con mia
promessa non marinara
mannateme fora da Via della Lungara
volo via come un piccione
per non tornarci mai più da coglione

28.7.12

FEDERICO MOLLO

Notte d’inferno

Notte d’inferno,
rimbalzano i pensieri,
finito è l’inverno
ma oggi è come ieri…
Disguidi, incomprensioni,
invadenza e monotonia,
non si fanno riflessioni,
concentrasse è ‘n’utopia;
dove sono quei momenti,
necessari per se stesso?
Sempre i soliti argomenti
di reati, droga e sesso!
Qui me sta a scoppià er cervello,
regna er caos e la pochezza,
l’ignoranza c’ha er mantello,
padroneggia con fierezza.
È quasi l’alba finalmente,
du’ minuti l’ho trovati,
un po’ de pace pe’ la mente,
… sor Morfeo l’ha catturati!

Figlioletto

Fisso triste quelle foto,
appese ar muro nella stanza,
provo a scrive me sento vòto
solo tu me dài speranza;
leggi, studia, damme retta,
non buttà le tue giornate,
cresci sano e ‘n ci avé fretta,
soprattutto ‘n fa’ stronzate!
Nella vita, figlioletto, sii educato, onesto e vero,
e ricorda il sorrisetto,
t’amerà il mondo intero!
Stai attento alle ipocrisie,
cattiverie, invidie e gelosie;
l’inteligenza è cosa rara
va cercata, presa, assaporata.
Avrai di certo tentazioni,
prendi tempo e informazioni,
la scelta giusta, e ciò è sicuro,
è il cammino assai più duro…
E poi ricorda che pe’ nu’ sbajà,
poi sempre parlanne co’ mamma e papà!

21.1.12

Mi permetto una piccola osservazione conclusiva: sia Mollo che Cececotto, già chiusi dietro le sbarre, si incarcerano volontariamente una seconda volta nella forma chiusa della poesia, come se appoggiarsi alla contenzione li aiutasse a contenere le emozioni. Come se anche la libertà che splende fuori dalla gabbia metrica contenesse il rischio di un reato. O come se la possibilità espressiva e l’immaginazione venissero amplificate dalla forma chiusa. Non a caso entrambi hanno cominciato a scrivere in carcere. Prima, nessun pensiero, solo una scattante intelligenza delle cose. Ora: la nostalgia, la rabbia, il pentimento e la supplica, i buoni consigli, quelli che diamo tutti ai nostri ragazzi, ché essi non abbiano a sbagliare come noi. Abbiamo cura di questo distillato, di questa parola di porpora / che questi uomini cantano al di sopra, / ben al di sopra / della spina, abbiamo coscienza di quanta fiducia nella vita ci vuole per scrivere, invece di dormire, confinati in una branda de le Mantellate.

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