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manifesto per un uso quotidiano della poesia (CorSera, 21.3.18)

E se la poesia tornasse nelle nostre vite?

Auspico che la poesia torni ad accompagnare le nostre azioni quotidiane.

Tutte: dalla ricerca delle chiavi uscendo di casa, alla gioia terribile di una nascita o di un amore nuovo, all’ingresso di una maggiorenne nel mondo degli aventi diritto di voto, alla vertigine di chi per la prima volta cerca di addormentarsi da solo nel letto matrimoniale, alla rabbia compatta di un prigioniero politico, allo smarrimento di un orfano nel gorgo interiore dell’antimateria, al fibrillare di chi ha appena intuito una legge che regola il microcosmo e il suo corrispettivo universale. Tutto.

C’è poesia per tutto, perché la poesia parla di noi e ci riguarda.

Bastano poche parole, semplici e chiare, per dimostrare l’opportunità di un uso quotidiano della poesia, poiché quest’arte fatta di parole svolge due funzioni:

1.   ci collega in maniera immediata e diretta con il nostro sentire e pensare
2.   svela la parte nascosta della realtà, per immedesimazione o per attrito

Entrambe queste funzioni sono aumenti di conoscenza.

Non di sapere, di conoscenza.

E la conoscenza lavora, a sua volta, dentro il nostro senso critico, nell’osservazione di noi stessi e della realtà. Più conosciamo noi stessi e il mondo, nella pienezza visibile e invisibile, più siamo etimologicamente intelligenti e consapevoli nell’adoperare la nostra presenza nel gran circo della vita, nelle relazioni con i cosiddetti altri, nel voto in cabina elettorale, nel nostro slancio, nel nostro disincanto e nella nostra autonoma rinascita.

Come scrivevo in questo articolo, che avevo significativamente intitolato “Fare poesia è un’azione politica” (“il manifesto”, 17 luglio 2011): “La poesia non è un’attività letteraria, è un’evoluzione dell’io […]. Ebbene, credo che mai come oggi questa sia una dichiarazione di resistenza e, parafrasando Fenoglio, una questione pubblica.”

Questo “mai come oggi” è tanto più vero sette anni dopo, nel 2018, davanti a certa politica che sempre più spesso, apertamente o in maniera subdola e subliminale, semina paura per raccogliere odio e frammentazione, secondo l’antico dettato divide et impera (dividi e comanda) e suggerisce dunque di pensare la cultura non per quella che è, ovvero un’attività indispensabile per interpretare il mondo, ma come ozioso diletto di chi ha la pancia piena.

“Mai come oggi”, dunque, occorre rivendicare la forza nutritiva e vitale, eversiva e politica, della cultura, della conoscenza e della poesia.

Basti pensare che gli internati nei campi di concentramento leggevano Dante, per combattere l’abbrutimento e rimanere “umani”. Con la parola “umano” è necessario intendere l’umanità al suo meglio, aperta all’altro, un felice sinonimo di “viva”.

Poesia e realtà: un Alfabetiere da ascoltare

Giorgio Caproni scriveva: «Una poesia dove non si nota nemmeno un bicchiere o una stringa, m’ha sempre messo in sospetto. Non l’ho mai usata, nemmeno come lettore. Non perché il bicchiere o la stringa siano importanti in sé, più del cocchio o di altri dorati oggetti: ma appunto perché sono oggetti quotidiani e nostri». Maria Grazia Calandrone ha composto un Alfabetiere. Per ogni lettera dell’alfabeto ha scelto una parola semplice, di uso comune, quotidiana e concreta, come “cipolla”, “martello”, “stivali”. L’intento (e le risposte vengono dall’ascolto), è verificare se davvero la poesia possa affacciarsi e lampeggiare da tutto e da ovunque e se i poeti siano capaci di intercettare e svelarci l’invisibile di qualsiasi parola e di qualsiasi oggetto.

L’Alfabetiere Poesia è andato in onda dal 1 al 21 marzo a Radio3 Suite: un viaggio in 21 tappe, che ora possiamo ascoltare qui

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