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Frabotta Biancamaria, Tutte le poesie (CorSera, 26.4.18)

leggi in “la27ora” del “Corriere della Sera” (26.4.18)

La raccolta di Tutte le poesie di Biancamaria Frabotta comincia con una dichiarazione di guerra alla natura, sferrata con la leopardiana inquietudine dei giovani, che ogni volta vogliono reinventare il mondo, come è doveroso che sia.

La seconda evocazione letteraria arriva poche pagine dopo, manifestata dalla sabiana parola “onesta”, attribuita a sé stessa autrice, immortalata nell’atto di affidare le proprie parole al lettore. Affidare, non consegnare. La parola affidare contiene un nucleo singolarmente affettivo, un’assonanza atipicamente sorridente, in un’autrice sobria come Frabotta. Ma l’esortazione al lettore, affinché egli stesso si faccia verso e affinché vegli, arriva poche parole più tardi.

Il lettore è collettivo, l’esortazione è ripetuta.

Frabotta espone dunque agli occhi del lettore-custode il proprio cammino dalla leopardiana natura matrigna alla semplice natura, che naturalmente esiste ed esegue il suo compito di verdeggiare, nonostante gli uomini, tra le belle pagine de Gli eterni lavori e de I nuovi climi, che precedono il nudo esercizio di umiltà delle bellissime poesie dedicate all’invecchiamento dei corpi – della madre, del proprio. Perché alla fine si vede quel che era chiaro fin dal principio: “sotto al sole non c’è / altro che il suo calore”, come dice un bel verso tra i primi, ripreso in epigrafe di uno dei testi (per ora) ultimi, Plasma, dedicato al fascinoso segreto, scientifico e poetico, dell’inavvicinabile sole.

Ma, oltre a seguire l’eterna e pur mortale Natura, la scrittura di Frabotta poeta è immersa e, anzi, formata come poche altre, dalla storia del paese e del suo tempo. Possiamo dunque leggere questa bella raccolta come una storia culturale e socialedell’Italia, dagli anni Settanta a oggi: dagli iniziali toni scanzonati, rivoluzionari, volutamente tenuti sul filo luminoso dell’impoetico (“sbocco arancio di mestruo adolescente il sole”) e del concreto (numerosi sono i riferimenti politici, incluso il tanto amaro quanto sorprendente presentimento dell’omicidio Moro) come voleva la “poesia del pane e delle rose”, al frammento disincantevole del contemporaneo, concentrato nell’invettiva contro il grande peccatore Bush. Nei primi testi, l’allegro e rabbioso desiderio di rovesciare il mondo è così riassunto: “che mi portano dritta all’inferno giù fino a Dio”. Negli ultimi, si è scoperta la pazienza di indagare ancora il manifesto mistero della poesia, come correndo dietro a quello che sappiamo di non poter raggiungere.

Ma il senso del nostro vivere sta tutto in quella corsa senza vittoria.

Per attenerci alla nota definizione di Cvetaeva, dunque Frabotta è un “poeta con storia”, la sua poesia è integralmente tessuta di biografia e anche di semplice e pura biologia e rielabora con la sua bella tempra originale i toni della poesia che il paese va facendo. Ci sono allora i viaggi, gli amati e necessari amici poeti, il giardinaggio e l’amore coniugale, c’è il congedo con il quale i vivi finalmente liberano i morti dall’impaccio del proprio amore bisognoso.

L’intenzione di un libro tanto popolato e ricco si manifesta con un verso ispirato a Bruce Chatwin: “una terra non cantata è zolla morta”. Dunque il proposito, o meglio: l’impegno di Frabotta, è far vivere – o rivivere – la terra con il proprio canto. Ma la scrittura non è mai ammiccante, tiene alta la testa, come è detto di quelli che volano tra terra e cielo, col “filo della nuca” verticale, come a tenere in riga testa e viscere, intelligenza e anatomia, senza concedersi una posizione di riposo, quasi neanche nel canto d’amore, anch’esso quasi sempre combattivo, pacificato solo in rari passaggi dei versi coniugali.

Frabotta compone dunque la poesia di una veglia continua, è protagonista di bellissime pagine sull’insonnia, rilascia parole di elevato peso specifico, come chi non solo non si concede riposo, ma neppure voglia disporsi alla posizione del riposo, perché sente il dovere di vigilare, su questo suo e nostro Occidente, che pare immerso in un pericoloso sonno della ragione. Il dovere di una ininterrotta vigilanza è espresso anche nel verso “dovevo insieme seminare e raccogliere”, che ci rivela come il gesto della semina sia contemporaneamente “raccolto” in parola, quella parola che rende viva la cosidetta realtà, quella che per convenzione e per abitudine chiamiamo vita.

E ancora: “La Terra di Nessuno che non ricorda Nulla” – con le relative opportune maiuscole, non può non ricordarci La rosa di Nessuno di Paul Celan e la parola di porpora del suo definitivo Salmo, ovvero il canto cantato dall’umano sopra ogni spina. Ma i decenni trascorsi da quel canto sono passati trascinando sui corpi il peso di altre guerre e nuovo disincanto, dunque un poeta contemporaneo può scrivere che le piacciono “Le singole poesie / scritte con umiltà e pietà / nell’attimo che ritarda la morte / e sfolgora, anche per un solo istante / la luce dell’amore. E dell’intelligenza”. Queste sono parole della maturità. Maturità di specie e maturità di singola persona, perché in questa poesia la singolarità è collettiva, pur rimanendo singolare.

Una seconda e, se possibile, ancora più illuminante dichiarazione di poetica, s’incontra poche pagine più avanti, messa come un inciso, tra parentesi – e dunque sottolineata, come Caproni sottolineava l’acerbità del fianco della mamma giovane, racchiudendo in parentesi i due aggettivi commossi “cauto e vergine”: così Frabotta scrive in parentesi che la poesia è “una sorta di fotosintesi dei suoni che potremmo chiamare ‘vista acustica’”. Nei poeti, dunque, l’oggetto osservato si traduce spontaneamente in parola, la cosa echeggia all’interno con un insieme di suoni che sono comunque una metafora del nome proprio, l’inafferrabile nome della Cosa.

Ma, per trascrivere l’insieme dei suoni che a sua volta trascrive la cosidetta realtà, Frabotta si fa un punto d’onore dell’uso di una viva antiretorica, del frequentare luoghi e costumi poco usati, ovvero, per dirla in una sola, bellissima parola, della sua: libertà. La libertà è infatti “la materia prima” della scrittura e dell’identità, politica e umana, di Frabotta. Libertà anche di allontanarsi dalle urgenze della contemporaneità e inoltrarsi nel tempo senza tempo che occhieggia dal fondo della nostra esistenza come l’osso sta immerso nel denso del corpo. A volte beffardo, a volte malinconico e dolente, a volte commosso. Ma indispensabile.

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