Poesie

foto di Giancarlo Finardi

  • La Zona Rossa
  • a N.
  • Ho un’amica che continua a lavorare in fabbrica nella Zona Rossa. Alla pressa
  • il contatto forzato coi colleghi
  • è stretto. Dice: «Noi operai
  • siamo carne da macello. Nessuno parla
  • dei morti sul lavoro», ogni anno un conteggio 
  • di prodotti stoccati e di mosche
  • morte nella regione della neve, dove l’orto è tagliato dai cancelli
  • e divide in porzioni disuguali
  • la terra. Tutto 
  • finisce, per tutti, in due metri quadri 
  • di terra, rivoltata da una benna 
  • manovrata da un uomo reso muto
  • dal lavoro coi morti. Tutto
  • è messo a tacere
  • sotto uno strato di viridescenti muffe nobili
  • raggelate dal soffio della prima notte. Dice: «Non ho paura
  • per me». Non aggiunge: «Sarebbe quasi una liberazione». Anzi, emette una scintilla
  • di pura gioia
  • se le chiedo, in pensiero: «Hai mangiato?»
  • Roma, 12 marzo 2020

lettura per Neclit Estudos Contemporâneo de Lit. Italiana da Universidade Federal de Santa Catarina na Florianópolis, BRASIL

da GIARDINO DELLA GIOIA Mondadori 2019

Poesia-sudario per Genova 14 agosto 2018

  • Il sudario si chiama sudario
  • perché assorbe gli umori
  • dei morti. Viene deposto
  • sul volto, per nascondere allo sguardo dei vivi
  • il lavorio della morte
  • nei lineamenti amati, le enfiagioni
  • e lo scavo finale, la riduzione all’osso, che riporta
  • la materia conclusa di un corpo nel non finito dell’altra
  • materia, all’indistinto delle zolle e degli astri.
  • Il sudario è deposto per pudore
  • sul volto, perché quel volto smetta di finire
  • sotto i nostri occhi. Così vorrei
  • che le parole, poiché non possono asciugare davvero
  • neanche una goccia
  • del vostro sangue, ricordassero almeno
  • la vita, il celeste profondo
  • o la rosa canina fra i paranchi
  • che vi ha fatto sorridere
  • per la sua ostinazione d’essere viva
  • nel cantiere perpetuo del porto
  • luminoso di sole morente
  • o l’altro sole, la grandezza radiale dell’alba
  • sollevata tra guizzi di reale come un rinascimento.
  • Mondo contemporaneo che vai a morire
  • tra i gabbiani delle periferie,
  • sotto la rotazione della Via Lattea come una verde insonnia dell’universo
  • che non ci guarda, mondo che sei questo infinito esistere che non contempla
  • i mortali, senza nome e cognome torneremo cose
  • tra le cose, senza involucri e senza nostalgia ritorneremo
  • all’indifferenziato delle stelle. Ma adesso, adesso
  • che siamo vivi

Risposta per Arturo

Se anche mio figlio, ieri, col libro di grammatica
greca aperto sul tavolo, sorridendo confuso tra il desiderio
di non dispiacermi e il pragma
della cosidetta realtà, chiede: “A che serve?”
io dico a voi, ragazzi: la bellezza
è gratuità del gesto,
come quando vi amate,
è il momento preciso in cui un essere umano
si stacca da terra,
s’inginocchia e disegna
un toro
sulla parete
della sua grotta,
a Lascaux. Così,
senza motivo.
O ha scoperto il modo
per non essere solo
– e ha scoperto il modo
per non morire.

6 marzo 2018

sembrava una faccenda naturale, che tu nascessi, coi muscoli crociati in posizione

e tutto il corpo predisposto al vivere, sembrava niente
 
che tu cadessi
in tutto quello che incomincia
a morire
 
incorniciato dai fiori
e con la gola scoperta:
                                        ecco
la vita in campo aperto,
con la rachide
tutta fiducia,
 
le ossa ancora cave
dei bambini, come le ossa degli uccelli
 
e le borchie d’ottone
poi, a riflettere il sole
 
sulla terra che prende colore,
dove sarai
grande abbastanza
da diventare niente
per sempre
e dire un cuore solo non basta
per ricambiare
la bellezza, che vedo
*

se, da adulti, riappare
la bianca terra iniziale
che avevamo negli occhi da bambini,
siamo tornati quelli che eravamo

bassi, vicini al senso delle cose,
corolle aperte
a un palmo da terra

9 ottobre 2017

 

Deposto il nome

Diceva sempre
ditele che la amo
e ditele che ho fatto tanta strada
per amarla.

Ditele che se uscivano
angeli e diavoli dalla sua bocca,
io vedevo soltanto la sua bocca.

Ditele che mi abita
per sempre.
Diteglielo, vi prego. Diceva sempre.

 
30 aprile 2016

da Gli Scomparsi (Gialla Oro pordenonelegge, 2016)

 
fototessera di Lucia Galante
 
sotto i vestiti eleganti preme
l’esuberanza onesta della carne (tese
le cuciture sulle spalle)
ed è facile immaginare quel corpo
muoversi sotto il cielo vastissimo del grano di maggio,
stare nella compattezza
di un’esistenza sola
sotto il peso del cielo,
sentire il peso del cielo
e una valenza come di moltitudine che non va indagata
mamma, se dal centro del grano risale
lo stridore meccanico della tua morte
immatura come il grano di maggio
e perdonata
come si perdona un papavero
nella solitudine del grano,
come si perdona la vita
che non conosce altro che se stessa
9 maggio 2017 (in Interno Poesia)
La poesia è anarchica, risponde a leggi solo proprie, non può e non deve piegarsi a nient’altro
che a se stessa.
La sua legge interiore è ritmo, musica assoluta.
questo spiega la commozione che proviamo nell’ascoltare letture di poesia in lingue a noi sconosciute.
abbiamo l’impressione di comprendere
anche se non capiamo le parole,
perché le nostre molecole consuonano con la musica profonda della poesia,
che è la stessa in ogni lingua: un ultrasuono, un rumore bianco.
una lingua invisibile, un ronzio nucleare
traducibile per approssimazione,
una sonorità che entra in risonanza con la parte più estranea e profonda delle nostre molecole
e col rombo primario della materia
che compone la sedia
sulla quale sediamo.
Come certa musica – penso al Chiaro di luna di Ludwig van Beethoven – è un linguaggio
letteralmente universale:
i poeti lo scrivono da sempre, ma le recenti scoperte astrofisiche lo confermano
con rigore scientifico, non più solo intuitivo: il nucleo più profondo di noi
è composto della stessa materia delle stelle.
Parole di Margherita Hack: «Tutta la materia di cui siamo fatti l’hanno costruita le stelle. Tutti gli elementi, dall’idrogeno all’uranio, sono stati fatti nelle reazioni nucleari che avvengono nelle supernovae, stelle molto più grandi del Sole, che alla fine della loro vita esplodono e sparpagliano nello spazio
il risultato di tutte le reazioni nucleari avvenute al loro interno».
Dalle scoperte ultimissime sappiamo ancora che
metà degli atomi che formano i nostri corpi è materia prodotta fuori dalla Via Lattea, viene da una distanza che non si può
commensurare.
La vibrazione delle nostre molecole entra in risonanza materiale con la vibrazione dell’universo,
fin dentro l’universo sconosciuto. Questa forza
«che move il sole e l’altre stelle»
è quella che Dante chiama «amore».
la poesia intercetta il corale profondo e ininterrotto di questa forza, intona la sua voce
al rombo delle stelle extragalattiche
e al rombo primario della materia
che compone la sedia
sulla quale sediamo.
È un oggetto fatto di parole
sempre d’amore.
e basta.
 
(in “Luvina”, Mexico, primavera 2018)
 

L’OROeterno, inalterabile, omogeneo, facilmente trasportabile. un metallo di transizione tenero, pesante, duttile. l’oro è l’elemento chimico di numero atomico 79. è un malleabile di colore giallo. il suo colore è dovuto all’assorbimento delle lunghezze d’onda del blu dalla luce incidente. l’oro è quasi del tutto inattaccabile. allo stato puro, è incorruttibile. reagisce solo con acqua regia e ione cianuro. nel suo stato nativo si rinviene, sotto forma di pepite, grani e pagliuzze, all’interno delle rocce, al fondo dei depositi alluvionali e al fondo dei tuoi occhi innamorati


pasto nudo
 
mi sentivo a mio agio con te come in una casa
con le tende e le cose lavate
dalla luce del sole
e tutto fuori era evidente e nitido
come in un pomeriggio d’estate
 
dicevo sempre non conosco gli angeli, conosco te
tornata al mondo come il primo amore
 
*
 
il tuo viso era semplice come un raggio di sole
e talmente vicino
che guardando i tuoi occhi
vedevo il tuo cuore
sciogliersi in filamenti incandescenti d’oro e di lava
 
*
 
i tuoi occhi
comprendevano gli occhi degli amori già amati
e il calore saliva da cose invisibili rimosse
 
e muoveva altre cose
invisibili e nuove
 
*
 
e noi, tra altri laghi lavati dalla luce
ricordavamo quello che non sappiamo
 
a quali spine sia impastata la dolcezza di quelli che amano,
come l’amore dolcemente agisca
contro di noi, perché la solitudine di quelli
che hanno visto l’amore una volta
non è la stessa solitudine
dei mai amati

[…]

il bacio sulla fronte, ‘na specie de poesia

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da IL BENE MORALE (Crocetti, 2017) Lo stupore di cui eravamo fatti
(dieci frammenti sull’evoluzione)

10.  scimmia lunare

la poesia non è che questo
rimbalzare del suono tra angoli bianchi
di crateri preistorici – un vuoto calcinato avvitato al fondo
dell’orecchio umano
come pelle con osso

il cantiere è la vita, l’oro della pazzia, tutta l’umana gioia

il poeta è la scimmia lunare. il suo corpo
non è mai solo: traslocato
dal favo fiottante
della parola nella cella vuota
della parola, il suo corpo
prende in sé
– fisicamente tra i suoi occhi divisi –
il centro della terra, metallo liquido
composto
dalla pena e dalla gioia
di tutti

egli sa solo trasformare in canto
il sangue della specie

sebbene il suo corpo sia una comune
entità chiusa, in trasparenza la sua massa risulta
sciolta all’interno per un fenomeno di combustione
mentre attinge
alla lingua comune
della specie, a quella lingua in allontanamento
come un arcobaleno lunare
che risorge dai luoghi dell’origine,
dove la lingua serve a stare insieme
per dire le cose, è solo
compassione

 
(in Interno Poesia, 2.1.17
leggi il poemetto completo in Nuovi Argomenti n.63 – settembre 2013)
 
http://www.youtube.com/watch?v=S1yMzr3kxIk

incipit. esumazione del corpo amoroso. lacerare
la guaina della memoria. esporre le lacune. vastità siderali del corpo amato. secondamento, al fine
della esposizione dell’intero
corpo amoroso
sul tavolo settorio. conta
delle lesioni di assestamento e delle distorsioni
della realtà. il seno sagittale della dura madre
origina a livello del forame cieco  
e afferisce alla falce cerebrale. sia secondo l’amore
il pensiero. la comune malinconia di un dato: finire
per estinzione deliberata
del battito cardiaco. si riscontrano scorie di volontà
non propria, simili a imitazioni di un’idea
del mondo. scaglie plastificate di realtà
sulla dolce mucosa sublinguale. seno destro imperioso. cavalcatura del monte. lambita
rima del monte. una goccia
di sostanza vitale
brilla ancora
alla luce del tardo pomeriggio
estivo. seno sinistro
petroso. rima
che irrora la giugulare, raccolta
nella tunica esterna di una pelle ambrata
per un sangue perfettamente puro. nessuna carie. aggressione del lobo
tiroideo. avrò cura
della schiuma di neve dei tuoi sogni
e dell’arco sereno
del diaframma. l’impalcatura nervosa
degli arti inferiori
vibra come un elastico. un sorriso infantile. bianco come lo smalto di un lavabo. bianco come il tuo cuore
che tremava per l’accelerazione e ora posa nel cavo sternale
come una scheggia
calcarea. la concrezione del mio amore muto nel disco d’oro
che hai chiamato prevaricazione
si è scolpita nella cesura amara
delle labbra, bellissime. la comune evidenza di un dato: amare  
questo vivido essere impermeabile. avere cura
della sua meraviglia e della sua ferocia. non esiste che questo sulla terra.

10.9.15

io, che non credo all’evidenza del male,
cerco la colpa
mi dicono che questa
sia la colpa: non andare via,
non essere precaria
dicono che il carnefice è chi ama
dicono che l’offesa sia ottenere
quello che per diritto naturale
aspettiamo nascendo: essere amati
senza condizioni
 
dicono
che la ferita
non sia la mia, d’essere abbandonata,
che la vergogna più profonda sia
essere
finalmente
senza pretese e senza condizioni
finalmente amati
 
 19.5.15

SERIE FOSSILE (Crocetti, 2015)
ascolta le poesie di “Serie fossile” a Radio3 Fahrenheit

 © – fossile
 
metti una mano qui come una benda bianca, chiudimi gli occhi,
colma la soglia di benedizioni, dopo che
sei passata attraverso
l’oro verde dell’iride
come un’ape regale
e – pagliuzza
su pagliuzza,
d’oro e grano trebbiato –
hai fatto di me
il tuo favo di luce
                             
una costellazione di api ruota sul tiglio
con saggezza inumana, un vorticare di intelligenze non si stacca
dall’albero del miele
 
                                   – sarebbe riduttivo dire amore
questa necessità della natura
                                                     
                                                    mentre un vuoto anteriore rimargina
tra fiore e fiore senza lasciare traccia:
                                                              
                                                              usa la bocca, sfilami dal cuore
il pungiglione d’oro,
la memoria di un lampo che ha bruciato la mia forma umana
in una qualche preistoria
 
dove i pazzi accarezzano le pietre come fossero teste di bambini:
 
                                                                                                           avvicinati, come la prima
tra le cose perdute
e quel volto si leva dalla pietra per sorridere ancora
 
24.5.13

 

ي – acconsente
 
 
vista frontale della cavalla: bruna, lucida, vigile. porta
il calco triangolare di un tallone
bianco al sommo del capo: uno schizzo lunare.
 
la bestia è nitida come la luna:
                                               il rilievo del muso, la struttura
                                               dei pettorali, la conca forte
dei lombi. una forma alla piena potenza, nera
in fondo alla strada del quartiere: ispeziona
l’erba, gli stenti cespi
di malva ai piedi del muretto
che asseconda la minima radura.
 
                                                                 ruota, scalcia, s’impenna, posa a terra
                                                      le zampe anteriori, per slanciarsi al galoppo.
                                                                          ricomincia, in maniera sintetica.
                                                            io mi volto, le giro le spalle. lei potrebbe
                                                                                          travolgermi, piuttosto
                                                                      oltrepassarmi. cambiare direzione.
                                                                                                oh, lei non tradirà.
 
la sento scalpitare: imbizzarrita, incerta. sento la polvere strappata al suolo
dagli zoccoli, le scintille dei ferri
battuti sull’asfalto e l’aspersione di un sudore bianco come incenso.
l’animale è improvviso e improvvisa
la calma
 
con la quale si affianca
alla mia destra. sbuffando
prende il mio passo umano: per un tratto
camminiamo in silenzio. poi
allungo la mano, per sfiorare
la piramide muscolare
della sua guancia sotto l’occhio. caldo
del manto sotto le dita: corto, morbido, in pace.
 
                                            giro la mia irrisoria testa umana e guardo da vicino
                                                                                  il suo occhio sinistro: nero,
                                                                                  rotondo e folle di dolcezza.
 
l’intero fianco della bestia cede,
piega le zampe
anteriori per lasciarmi salire
sul nudo della groppa: corpo
a corpo, senza sella. ecco
l’incastro:
lo strumento, la cosa. ecco la cosa fatta per andare.

8.10.13

۩ – età dell’oro
 
dico di quando, per la troppa gioia
d’essere amati, cadiamo
sulla terra oh!, viva carne
che perderai la voce
nel pianto, dico di quando
ispirati, noi costruiamo con martello e chiodi lo scenario
e il fossile di un angelo stacca
le ali dalla calce
dei muri, a fondoscena. dico di quando
io abbracciavo in te tutta la vita: la tua
e la mia, che brillavano unite da una gioia preistorica
nella notte, che accadeva da ovest
sulla campagna. dico di quando
tu ritornavi vergine per me
in una trasparente emorragia di luce – oh!, cosa
straordinaria
di natura ordinaria – oh!, vita
tutta intatta, tutta
disordinata, prima che l’amore
pulisca
tutto, all’indietro
tutto, la vita intera

9.10.13

ϔ – albero, fossile
 
verrai nutrita
a lungo, avanti
nel tempo della vita, dai frutti
di un melo preistorico. in un futuro aprile, t’innalzerai
con la spina dorsale spinta
da una linfa nuova,
ricorderai la dolcezza dell’albero che non voleva morire e ributtava e rifioriva, ogni volta
che lo tagliavi. girerai indietro
la testa, allungherai la mano, la bella mano che con tale dolcezza accarezzava
i rami aperti del melo
e mangerai. allora tornerò nella tua bocca con la leggerezza della luce. e ancora,
al calor bianco del nostro tempo estivo, mangerai
la mela che ha pescato
al fondo del tempo, il frutto rosso e gonfio
come un’arteria, che scorre
dalla mia vita alla tua vita,
ma lontano, ma sotto, là dove non arriva la ragione,
nei luoghi inarrestabili. dimentica
l’albero. non pensare più a niente, soffiami via. che resti solo vita per la tua vita,
 
 
24.8.14

ascolta albero, fossile a Radio3 Fahrenheit (2.3.15)

Maria Grazia Calandrone legge “San Silvestro – Arco di Travertino”, inedito, per Rai Letteratura – registrazione 27.9.2012


 
ROSA DELL’ANIMALE (Zona, 2014)
 
io non sono che il bianco della bestia
e lo splendore del suo occhio
nero,
rotondo,
mite
 
sono la mansuetudine dell’universo
che gira su se stessa
come l’occhio nell’orbita dell’
animale,
 
                idolo
addormentato
che qui, sul limitare dell’abisso, lascia la prima lacrima
di gioia.
 
                sono occorsi
millenni per quest’unica
lacrima,
 
                alla quale s’inchina, come s’inchina
un campo
di fiori battuto da un vento
siderale, questo plurale
 
umano, coronato
di sole e impastato con la stessa pasta
della bestia,
 
                      questa miseria che desidera essere
accarezzata
dalla misericordia del tuo sguardo
 
12.1.2013
 
se questo corpo è tutto traforato
dallo splendore della continenza sarà aria, presto io sarò aria
e sarò il balestriere che ormeggia
il cielo, il corpo secco come un trofeo di guerra
dopo l’ultima lotta, il rubino
addensato da tutte le mie colpe sulla fronte – un diadema
di colpa. non avrò più peccato, solo
armi. né corazza
né cavalcatura: sarò
nudo e porterò il dolore superficiale
di una spada
appoggiato sull’omero – sarò quasi già un pugno di sabbia, ma piegato
sotto il suono d’oboe della rotazione dei pianeti, sensibile
al cigolio della macchinazione
planetaria, deporrò i muscoli impiegati per il volo
come appendici – o solamente sogni
di appendici umane – nel vaso del tuo corpo, che è rimasto
fedele alla fiducia che questo mondo dove pesano solamente i fatti
sia fatto a somiglianza di un’astrazione
 
IL BENE MORALE (Crocetti, 2017)

Roma, all’improvviso, notte

buio improvviso. il sole
splende sui tetti e non al suolo. il giorno
si capovolge come uno scarabeo
d’oro. sfolgora il metallo delle gru,
i meccanismi e i giunti unti di sole
colano pioggia d’oro.
una grandine chimica, innaturale, incrina
il contratto sociale del cielo

con gli uomini. i palazzi di Roma popolare, della mia bella Roma
contro il sereno: un paradiso caduto
sotto la fiamma liquida del cielo. il cielo butta
da una piaga sulfurea
un rovescio squillante di gabbiani: un luccichio scontento
di ali fatte per capire il mare
batte
pochi metri più in alto
del suolo, quasi che le nuvole si siano chinate
a calare uno sconforto solo terrestre e l’azzurro ne resti tutto
indifferente, scosceso di luce
nel gelo imperscrutabile del padre

Roma, 5 dicembre 2012, ore 16.20

Tangenziale Est

 

Voi non sapete la vostra bellezza, i colori magnifici che fate, la vastità marina dei cassetti
con le isole meridiane dei calzini
amaranto al mattino, come commuova il lasco
delle frizioni in questa ora quieta del Sud.

Tra corpo e polietilene non c’è spazio. Eppure resiste
qualcosa
di ancora non caduto, di non completamente
disseccato. Scocca di resine. Organi
scuri e molli. Milza. Pistone. Adesso guarda
dentro questa assenza di spazio, tocca questo stiparsi. La materia granata 
del cuore. Contachilometri. Stantuffo. Serratura. Portello
posteriore. Gangli 
di cavi e valvole. La pituitaria. Ganglio 
dell’ipotalamo. Ora abbandona tutta la speranza
lascia che affiori
dal tuo volto la meridiana gialla
del caso – giallo 
radiante, giallo
maturo. Un sorriso
di scimmia. Bianco. Un sorriso
canino. Cambio. Filo dei freni. Tendini
e loro estensione. La gravità ci piega verso il basso. Cilindri, aghi
e puntatori. Prolungamento delle rotule nell’albero
motore. Il biglietto coi nomi che hai lasciato 
nella cavità della roccia,
la scia di sangue con la quale hai sbiancato il suo cuore.

Guarda queste colonne orizzontali, questo moto da luogo, guarda il compatto
e insieme il differenziato, questa massa bellissima di corpo e macchina 
mossa
ogni giorno da mantici di volontà. 
Siamo una collettiva dedizione. Dopo, ci dividiamo.

Pensa al continuo affrontarsi 
di cortecce orbitali, 
pensa 
che un millimetro scarso di membrana conserva le creature 
nel sacco del proprio comportamento morale. Pure, non c’è omicidio. Le autovetture sfilano con obbedienza
lungo la tangenziale. Uno spettacolo 
di ordine amoroso. Potrebbe essere 
un massacro, una piaga d’ira. Ma siamo
gentilissimi. Dorsali. Retti
da un quotidiano affetto di scimmie. Nessun investimento volontario. Raramente
qualcosa sfugge. Un trionfo ordinario di amore, 
un rogo morale
di volti umani e vetro.

Sotto di voi è distesa la colata di pace 
della carreggiata. Raramente qualcosa
deraglia. Solo talvolta il cuore – l’orbita
magna – guizza
nella maglia d’uranio 
della sopraelevata. Solo talvolta 
un soffio del sangue
porta fin qui, sui groppi 
di cemento del ponte 
la luce delle rose. Allora
la gabbia di zinco dello spartitraffico riluce in questa quiete 
come la scia del sorriso degli immortali 
allora soffia
sulla groppa di minerale inerte che s’inarca 
nell’ampia e bianca radiazione 
tra Scalo San Lorenzo e 
Via Prenestina un’asciuttezza di sabbia 
con le rovine e le biciclette d’oro.

Adesso sei continuamente in contatto
completamente divaricato dal canto
sei allo scoperto, tutto
smemoratezza, esposto 
in tutta la superficie 
e per ciò inattaccabile
sdrucciolo
brilli come una catena di luce che oscilla. 
Brilli come una cosa.
Sei curvo come un masso di sentimenti.
Riesci ad amare il tuo benefattore.

Roma, 29 settembre 2011

podcast DELL’UTOPIA DEL VOLO per Marcello Benvenuti (Radio 3, 1.8.12)

 

foto di Francesca Mannocchi

SULLA BOCCA DI TUTTI (Crocetti, 2010)

La chiara circostanza

La clamorosa dolcezza delle clavicole, la percussione cessata
dei finimenti muscolari, le valvole
che l’hanno finalmente abbandonata 
sulla terra, l’angolo umile che fa la testa
per celare il sorriso
sulla cruda colonna del corpo
dice: ti ho aspettato per tutta la vita
ho visto la tua vita
nei miei sogni e tutta, notte 
dopo notte, si risolveva nel perdono. In certe svolte
quando il cielo pieno di meraviglia coincideva
con la bolla degli alberi agitati dalla piena
luna, io mi svegliavo
per causa dei tuoi sogni
e portavo il tuo nome come una bandiera
che saliva dal petto e mi rendeva
invisibile: di me
si vedeva soltanto il tuo nome. Io sapevo
che avremmo dovuto terminare vicini
qualunque cosa nel frattempo fosse stata di noi. Adesso
eccomi, sono qui per finire
nella tua fine, per aspirare l’ultimo respiro
dalla tua bocca
e soffiarlo attraverso la bocca
che dopo te nessuno ha più baciato, 
al cielo.

I FIORI CHE LEI PORTA (teaser 01)
 


 
da Maria, Passione

Io non avevo alle spalle l’aria 
ma il tuo essere alato che diceva 
sono il tuo servo, sali
sulla mia vita fino al paradiso. 
Io volevo passare senza dolore. Io volevo
diventare il passato come quella inservibile oscurità sul lago
artificiale. Il tuo nome innalzava una colonna fatta
dai rintocchi del cuore come colpi di maglio nel lago solare. Il chiaro
che facevamo era verdemente conforme 
ai gorghi 
dei biancospini
– candelabri 
che alla prima accensione del vento
stordivano come se rimanesse solo il fresco
del pulito in terra mentre il mondo si levava con il suo catrame secondo l’immane
comando della creazione. Così Maria ha inventato l’angelo
e gli ha consegnato la sua vita
e al posto della vita di Maria
in lui echeggia un terreo paradiso.

[…]

Posa il tuo piede sopra le mie spalle
adopera la scala delle mie vertebre
che reggono l’atlante cerebrale 
per calzare nel sacco della pelle
l’autosufficienza
della tua forma
trascorri nella cava delle ossa 
come aria che suona
nelle canne degli organi
fai risuonare con il tuo respiro le pareti 
dell’umida condotta di areazione
della mia gola e fai tremare l’albero bronchiale
radicato in prossimità del cuore
piega il vischio dei visceri
a formare il tuo nome
interra il massimo della tua luce nel forame 
pupillare che è una spugna di luce dell’altro mondo
forma il nome del mondo con il corpo 
fino a dare al mio corpo il nome del mondo. Piccoli tendini 
collegheranno la sfera intelligente del tuo cranio 
alla residenza mortale. Starai
come una differenza, una addizione
di splendore nel mio torrente circolatorio
fino a perdere il sangue 
della solitudine 
necessaria a consolidare il fenomeno
della nascita
nonostante la quale non smetterai
di stare in me come un elemento 
del mio sangue perché saranno i filamenti radicali del corpo
prima della mia 
volontà, a trasformare in ancora più amore 
il disastro che ha fatto la tua croce 
nella mia vita, a trasformare
l’osso esposto della croce 
nell’aprile del non voler morire.

da OPERA 9/11: la cecità amorosa
 

Grazie per le barche ferme 
nella giornata grande e bellissima
con i ponti abbassati e le cabine
piene di luce.
Diranno che nel fumo si formavano volti 
estranei. Incolperanno 
gli innocenti
li attaccheranno nelle loro case
con gli eserciti.
Inserisci la lingua nel fermaglio
e domanda la grazia del martirio.
Grazie per l’alba fresca e senza vento 
che precede l’inizio
e i voli chiari e calmi 
separano il pomeriggio in due coppe 
di effimero argento.

Non avevo nemici, avevo 
sospensioni, ero seduta a pensare
non so
sopportare l’amore, il cuore si corrompe e si rassegna
sul ramo
e un’euforia mi circola nel sangue come il muso di un lieto 
somarello che bruca
la radura nel centro del mattino. 
Non creare eccessiva sofferenza all’animale
durante il sacrificio
controlla che la lama sia tagliente. 
Mattutino è il mio cuore
liberato dall’uomo e domenicale
pagliuzza
fra i denti dell’altissimo.

Quando hanno adagiato il corpo sull’altare nell’aria c’era soprattutto
silenzio
e il mercurio di migliaia di lampadine
radiazioni e vanadio più che nell’incendio
dei pozzi di petrolio e nella sordità dei crematori.
Grazie per quel filo di pietà che resiste
nella trina sul collo di lei.

OPERA 9/11 in Radio 3 RAI (21.3.12)

foto di Francesca Mannocchi

© Maria Grazia Calandrone 2010 – Tutti i diritti riservati – All rights reserved
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